PREVIDENZA FORENSE: COMMENTO ALLA SENT. N. 67/2018 CORTE COST.

31 Marzo, 2018 | Autore : |

Con la pronuncia in oggetto la Corte Costituzionale torna ad occuparsi del rapporto tra il sistema pensionistico forense e l’art. 53 della Costituzione, oltre a ragionare della natura della contribuzione stessa. Il commento alla sentenza, che è disponibile sul sito internet del nostro giudice delle leggi, si rende opportuno per varie ragioni. In primo luogo la Corte riconferma una visione statica del sistema previdenziale, che non fa che legittimare la strada intrapresa da NAD, ovvero quella di operare un cambiamento del sistema per mezzo della via politica, non confidando sulla volontà della giurisprudenza di aprirsi spontaneamente al riconoscimento delle nostre giuste ragioni. In secondo luogo, è evidente che la Corte, almeno con la pronuncia di cui si discute, abbia mostrato di poter nuovamente ragionare del rapporto tra contribuzione previdenziale e proporzionalità.

 

Si rende dunque opportuno un commento del capo della motivazione che affronta le questioni sollevate dal tribunale rimettente, che nel caso di specie è stato quello di Palermo, onde evitare di trattare in modo semplicistico una vicenda che, se sul piano politico costituisce il cuore della nostra battaglia previdenziale, può approdare ad esiti diversi da quelli consolidati nella giurisprudenza italiana, non essendo precluso del tutto un ravvedimento dei nostri giudici.

In questa ottica vale la pena richiamare lo studio che NAD ha pubblicato in materia di art. 53 e contribuzione previdenziale, che costituisce ancora oggi il riferimento più attendibile per chi voglia evitare facili entusiasmi, legati più alla ragionevolezza della nostra tesi che alla disponibilità dei magistrati italiani ad accoglierla:

 

I CONTRIBUTI PREVIDENZIALI MINIMI E L’ ARTICOLO 53 COSTITUZIONE

 

Abbiamo spiegato ai colleghi che la visione della magistratura non ha mostrato mai, in tutti gli anni presi in esame, una volontà evolutiva rispetto a due capisaldi del sistema vigente, che restano, nell’interpretazione dei giudici italiani:

  1. La natura non tributaria dei versamenti contributivi; 
  2. La non necessaria proporzionalità dei contributi minimi al reddito del contribuente. 

 

Vale comunque la pena puntualizzare che anche la pronuncia n. 67/2018 della Corte Costituzionale chiarisce, rivolgendosi a giuristi esperti e non improvvisati, la portata della censura operata rispetto alla questione rimessa alla sua analisi, dichiarando l’inammissibilità della questione e non giudicandola dunque infondata. La differenza non è di poco conto: una nuova pronuncia di infondatezza rispetto all’argomentazione della proporzionalità, pur risultando a nostro parere erronea in diritto, avrebbe rafforzato il partito politico di chi si oppone alla nostra battaglia. La natura della questione rimessa al vaglio della Corte consente invece di poter sperare che il tema della proporzionalità della contribuzione minima, se sollevato in modo calzante, possa trovare accoglimento anche presso la giurisprudenza della Corte Costituzionale.

 

 

Detto questo appare dunque importante concentrarsi sul capo n. 4 della motivazione espressa dalla Corte, in modo da delimitare l’ambito di operatività della pronuncia in esame e chiarirne la portata. A tal fine il capo in oggetto si riporta integralmente:

 

4.– La questione di legittimità costituzionale del medesimo art. 10 della legge n. 576 del 1980, in riferimento all’art. 53 Cost., è invece inammissibile.

Il rimettente non dubita in realtà della natura pacificamente previdenziale del contributo in questione, né potrebbe farlo per la intrinseca contraddizione che non lo consentirebbe. Infatti il giudice a quo muove dal non contestato presupposto della sua giurisdizione come giudice ordinario, laddove l’eventuale prospettazione della natura tributaria del contributo, al contrario, la escluderebbe comportando, di conseguenza, la giurisdizione del giudice tributario, che il rimettente stesso non ipotizza affatto. Non vi è dubbio infatti che «quella contributiva previdenziale non è una imposizione tributaria vera e propria, di carattere generale, ma una prestazione patrimoniale diretta a contribuire esclusivamente agli oneri finanziari del regime previdenziale dei lavoratori» (sentenza n. 173 del 1986; nello stesso senso sentenza n. 88 del 1995).

In realtà il rimettente evoca l’art. 53 Cost. sotto un profilo diverso perché assume, in sostanza, che il contributo complessivamente richiesto all’avvocato A. T. sia marcatamente eccedente rispetto al possibile beneficio previdenziale che a lui ne deriverebbe, sicché esso ridonderebbe, di fatto, in una vera e propria imposizione tributaria, inammissibile perché la Cassa non ha alcuna potestà fiscale. L’avvocato A. T. sarebbe tenuto a finanziare la spesa previdenziale in misura sproporzionata e maggiore rispetto a quella sostenuta dagli altri suoi colleghi che potranno percepire – o anche che già percepiscono − le prestazioni pensionistiche da parte della Cassa.

In questa prospettiva la censura è inammissibile.

Si è già ricordato che l’obbligazione contributiva dell’assicurato iscritto alla Cassa trova fondamento nella prescritta tutela previdenziale del lavoro in generale (art. 38, secondo comma, Cost.) e si giustifica nella misura in cui è diretta a realizzare tale finalità, la quale segna anche il limite della missione assegnata alla Cassa. Diversa è l’obbligazione tributaria che si fonda sulla «capacità contributiva» (art. 53, primo comma, Cost.) e che non ha necessariamente una destinazione mirata, bensì si raccorda al generale dovere di concorrere alle «spese pubbliche» e può anche rispondere a finalità di perequazione reddituale nella misura in cui opera il prescritto canone di progressività del sistema tributario (art. 53, secondo comma, Cost.).

Stante questa differenziazione, la contribuzione dovuta alla Cassa, fin quando assicura l’adeguatezza dei trattamenti pensionistici alle esigenze di vita, anche con un indiretto effetto di perequazione, non eccede la solidarietà categoriale di natura previdenziale, in quanto «volta a realizzare un circuito di solidarietà interno al sistema previdenziale» (sentenza n. 173 del 2016), né trasmoda in un’obbligazione ascrivibile invece alla fiscalità generale e quindi di natura tributaria.

Però, nella specie, il rimettente deduce soltanto la mera circostanza fattuale della ritenuta eccessiva onerosità del contributo previdenziale, circostanza che attiene alle peculiarità del caso, e non svolge una adeguata censura di carattere generale sul complessivo sistema di provvista della Cassa in raffronto alle prestazioni erogate.

Tale insufficiente motivazione della censura comporta l’inammissibilità della sollevata questione di costituzionalità.

 

Le argomentazioni della Corte sono molto interessanti, perché aiutano a comprendere che la battaglia giudiziaria portata avanti da molti avvocati avverso i minimi contributivi slegati dal reddito, sia spesso sostenuta più dal coraggio e dalla disperazione che da una solida formazione tecnica. Vi è infatti un primo aspetto che la Corte ci fornisce e che dovrebbe farci riflettere:

  • Se vogliamo che la contribuzione minima, sproporzionata rispetto al reddito, venga affrontata dalla Corte Costituzionale alla luce dell’inquadramento nel novero dei tributi, dobbiamo impugnare la pretesa corrispondente dinanzi al Giudice Tributario e non dinanzi al Giudice del lavoro.

Il ragionamento della Corte merita di essere analizzato, parola per parola, perché sa dire molto, andando anche oltre una lettura superficiale, che parrebbe liquidare la questione in maniera sbrigativa. In particolare la Corte assume che la mancata impugnazione della contribuzione che si asserisce violare l’art. 53 Cost. dinanzi al giudice tributario costituisce “pacifica” accettazione della natura “previdenziale” del contributo.

Una prima riflessione, di portata giuridica preliminare, discende da questa interpretazione e può fare da guida a chi intenda sottoporre la contribuzione minima al vaglio della Corte Costituzionale, in rapporto all’art. 53 della Costituzione:

  • se si intende qualificare la contribuzione minima come tributo, occorre impugnare la sua illegittimità dinanzi al giudice tributario. 

 

 

Ad un’attenta lettura però non sfugge che i margini per insinuarsi nella prospettazione consolidata della contribuzione esistono, ed è la stessa Corte Costituzionale ad offrirli, richiamando massima giurisprudenziali che non negano affatto la natura tributaria della contribuzione, ma parlano di tributi atipici. Quando infatti la Corte si riferisce alla contribuzione come una prestazione patrimoniale non giustifica l’estromissione della contribuzione dalla portata combinata degli articoli 23 e 53 della Costituzione. Detto combinato prevede che:

  1. nessuna prestazione patrimoniale possa sfuggire alla riserva di legge (ex art. 23 Cost.); 
  2. nessuna imposizione tributaria possa sfuggire ai criteri di progressività e proporzionalità (ex art. 53 Cost.). 

 

Nel caso della contribuzione minima imposta dalla Cassa di Previdenza Forense, le disposizioni costituzionali sono entrambe violate. I contributi minimi, che a tutto voler concedere possono essere ritenuti non una imposizione tributaria vera e propria (cfr. Sentenze nn. 173/1986 e 88/1995), non sfuggono alla definizione di prestazione patrimoniale. Quando dunque analizziamo il concetto di dovere di concorrere a sistemi di spesa pubblica ai sensi dell’art. 53 comma 1 della Costituzione, tra i quali sicuramente possiamo ascrivere anche il sistema previdenziale obbligatorio previsto dall’ordinamento italiano, non possiamo disconoscere il limite della capacità contributiva dettato dalla norma. 

Le prestazioni patrimoniali, sia che vengano inquadrate nella fattispecie giuridica dei tributi atipici, sia che non si vogliano far confluire in questa categoria tributaria, rientrano inevitabilmente all’interno dell’alveo della capacità contributiva del contribuente. Pertanto una contribuzione sproporzionata al reddito non viola l’art. 53 della Costituzione solo con riferimento al comma 2 dell’articolo, quello che impone che il sistema tributario sia informato a criteri di progressività, ma lo viola anche in riferimento al comma 1, laddove impone al contribuente di concorrere alla spesa pubblica senza tener conto della sua effettiva capacità contributiva.

L’imposizione di una contribuzione sperequata rispetto al reddito effettivo, va infatti a ledere quei concetti di dignità del lavoratore avvocato, che ha diritto a trarre dal suo lavoro una retribuzione sufficiente alle sue esigenze di vita presenti. Non vi è alcun dubbio dunque che la contribuzione minima sproporzionata al reddito esuli dall’effettiva capacità contributiva e vada censurata per violazione dell’art. 53, sollevando la questione non solo con riferimento alla proporzionalità del sistema, ma anche in merito alla sua mancata aderenza al criterio della capacità del contribuente di farvi fronte con le proprie risorse reddituali. 

 

 

Cenni all’incostituzionalità del sistema dei “minimi”con riferimento all’art. 23 Cost. 

Non vi è alcun dubbio che la riserva di legge di cui all’art. 23 della Costituzione, oltre a far riferimento alla legge, in senso tecnico e con limiti stringenti per ciò che attiene alla possibilità di delegificare il regime delle prestazioni patrimoniali imposte, contenga un richiamo implicito al principio “no taxation without representation”. 

Insomma, non solo le prestazioni patrimoniali imposte, quali quelle che la Corte Costituzionale considera essere i contributi previdenziali, devono sottostare ad una riserva di legge che sfugga a previsioni impositive contenute in atti di natura regolamentare, ma è indubbio che quei regolamenti adottati da soggetti privi di adeguata rappresentatività delle proprie istanze non rispecchino il principio implicito espresso dall’art. 23 della Costituzione. In questo senso, il regolamento adottato dalla Cassa di Previdenza Forense che si occupa di definire la misura dei minimi contributivi viola entrambi i profili della richiamata norma costituzionale.

Abbiamo già espresso in altri scritti le censure volte a contestare un regolamento dei contributi che, nel caso della Cassa Forense, sfugge ai limiti imposti da una rigorosa “riserva” imposta dalla legge delegante. Il riferimento normativo del regolamento è infatti il comma 3 dell’art. 1 del D. Lgs. 509/1994, che non contiene affatto criteri stringenti, tali da poter contenere la regolamentazione dei contributi imposti dalla Cassa di Previdenza Forense all’interno della riserva voluta dall’art. 23 Cost. Questo già basta per tacciare di incostituzionalità il regolamento dei contributi n. 143/2016 voluto dalla Cassa Forense.

 

Vi è però un secondo profilo di illegittimità del regolamento dei contributi, così come attualmente vigente e riguarda proprio la violazione del principio della rappresentanza, implicitamente contenuto nell’art. 23 Cost., rispetto alla possibilità di imporre prestazioni patrimoniali. Nel caso dei contributi imposti dalla Cassa essi si rivolgono ad una platea di contribuenti che è priva dell’elettorato passivo all’interno del Comitato dei Delegati. Tale comitato, attualmente composto da avvocati con più di dieci anni di iscrizione all’ente previdenziale, ha pertanto imposto contributi anche a soggetti privi dei requisiti per poter accedere all’Organo rappresentativo delle proprie istanze. Non vi è dubbio che ciò integri un autonomo profilo di incostituzionalità del regolamento in esame, dovendo considerarsi la potestà impositiva  delegata al volere della Cassa Forense solo in ipotesi che detta potestà sia formata tenendo conto delle istanze rappresentative di una larga fetta di contribuenti, oggi esclusi dall’Organismo deliberante.

Per le ragioni espresse, la contribuzione ritenuta illegittima ed incostituzionale da un avvocato privo dei requisiti per l’eleggibilità all’interno del Comitato dei Delegati di Cassa Forense, ma comunque assoggettato alla contribuzione imposta dall’ente, viola l’art. 23 Cost. e va censurata, sia per violazione della riserva di legge, intesa in senso stretto, sia per violazione della rappresentatività necessaria ad organismi delegati dalla legge a quantificare una prestazione patrimoniale obbligatoria. 

 

 

La digressione sull’art. 23 della Costituzione non è fuori luogo, ma concorre a dimostrare che il problema delle pronunce che fino ad oggi hanno rintuzzato gli attacchi alla vessatorietà ed illegittimità del sistema contributivo forense è anche legato all’assenza di censure poste nel modo dovuto. E’ una riflessione che, tra le righe, la Corte Costituzionale suggerisce anche con la sentenza in commento in questo articolo. Torniamo infatti alla motivazione relativa all’inammissibilità della censura di incostituzionalità per violazione dell’art. 53 Cost.

La Corte afferma:

“Però, nella specie, il rimettente deduce soltanto la mera circostanza fattuale della ritenuta eccessiva onerosità del contributo previdenziale, circostanza che attiene alle peculiarità del caso, e non svolge una adeguata censura di carattere generale sul complessivo sistema di provvista della Cassa in raffronto alle prestazioni erogate.

Tale insufficiente motivazione della censura comporta l’inammissibilità della sollevata questione di costituzionalità.”

 

Vi è dunque, nell’atteggiamento della Corte, un doppio aspetto: da un lato si motiva l’insufficienza della motivazione alla censura proposta del rimettente, dall’altro non si esclude affatto che “…un’adeguata censura, di carattere generale, sul complessivo sistema di provvista di Cassa in raffronto alle prestazioni erogate…”, possa essere vagliata dalla Corte. Si tratta di un aspetto della motivazione di grande importanza, che apre un ulteriore spiraglio per chi voglia impugnare i minimi contributivi, chiedendo una declaratoria di inammissibilità per violazione dell’art. 53 Cost.

 

 

Conclusioni 

La magistratura italiana ha sempre respinto, pur con argomentazioni che non appaiono condivisibili, il concetto di proporzionalità dei contributi previdenziali rispetto al reddito. Il sistema previdenziale pubblico o comunque obbligatorio, quale è quello a cui fa riferimento la Cassa di Previdenza Forense, viene legittimato, nelle sue pretese impositive, da vincoli di presunta mutualità obbligatoria e doveri solidaristici che non riescono più a spiegare il rapporto tra contribuzione sproporzionata, all’attualità, e prestazioni insufficienti ed incerte, in relazione al momento di maturazione del diritto al trattamento pensionistico connesso ai contributi versati.

Non vi è dubbio che le censure al sistema vigente, se ben argomentate, in relazione alla violazione degli articoli 23 e 53 della Costituzione, possano indurre le magistrature superiori a rivedere il proprio orientamento, ma le pronunce che si susseguono in materia, inclusa la n. 67/2018 emessa dalla Corte Costituzionale, fanno capire che la via maestra per ottenere un cambiamento sistemico è politica, prima che giudiziaria.

Per quanto attiene al merito della pronuncia analizzata, essa non riesce a smentire l’ipotesi, invero sostenuta in dottrina e non contestabile, che i contributi previdenziali siano da qualificarsi come prestazioni patrimoniali, soggetti agli artt. 23 e 53 Cost. o in quanto tali, o in quanto forme di tributo di atipico. Il passaggio da una catalogazione tributaria “chiusa” ad una forma aperta, consente di prospettare i contributi previdenziali come tributi, senza incorrere in una violazione di legge che consideri tale categoria come espressione di un elenco tassativo. In tal senso si guardi alla  ìriclassificazione dei tributi operata dal legislatore a mezzo della riformulazione dell’art. 2 del D. Lgs. n. 546 del 1992 (ottenuto dapprima con le modifiche apportate dall’ art. 12, comma 2, L. 28 dicembre 2001, n. 448 e poi nel 2005 con le integrazioni di cui all’ art. 3- bis , comma 1, lettera b), D.L. 30 settembre 2005, n. 203 , convertito dalla L. 2 dicembre 2005, n. 248).

Le modifiche indicate portano ad una sostanziale revisione dell’impostazione in materia: “Con la nuova disciplina viene estesa e resa generale la giurisdizione del giudice tributario: da un elenco di tributi nominati e tassativo, si passa ad una previsione generica relativa ai “tributi di ogni genere e specie comunque denominati”.  (cfr. Franco Fichera, pubblicato in Rassegna Tributaria del 2007)

 

La battaglia per una nuova previdenza forense necessita di una base giuridica rigorosa e una serie di questioni, sollevate in modo non calzante, rischia di avere effetti indesiderati assai negativi per la prospettazione politica legata alla nostra visione della legittimità contributiva. Per questo, prima di parlare di azioni giudiziarie, occorre sempre chiedersi se la via dei ricorsi appaia funzionale ad un cambiamento della giurisprudenza in materia, ovvero, contenendo errori ed approssimazioni, non risulti infine funzionale ad un rafforzamento dello status quo.

Avv. Salvatore Lucignano

 

 

 

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