Il coraggio di immaginare il futuro: decontribuzione e contributivo

23 Novembre, 2020 | Autore : |

I trends demografici e reddituali dell’avvocatura degli ultimi anni suggeriscono nitidamente l’esigenza di mettere mano in maniera incisiva agli attuali assetti previdenziali. L’esplosione della crisi pandemica sta funzionando da catalizzatore anche su queste tendenze, chiaramente delineate.

Inevitabile aprire un cantiere di riforma che possa rivedere l’attuale sistema, tentandone un riassetto che lo renda più compatibile rispetto all’attuale morfologia delle “avvocature”.

Fondamentale, al fine di immaginare un futuro possibile, è fotografare con fedeltà e senza inganni, anche terminologici, la realtà della categoria. Cominciando a parlare apertamente di “avvocature”, non potendosi negare che l’eterogeneità di modalità operative, contesti socio economici d’azione e capacità reddituali evidenzi chiaramente l’esistenza di plurime avvocature, ognuna socio – politicamente marginalizzata anche dall’illusione di poter sciogliere i nodi che le affliggono imponendo alle altre la sua visione e la sua ricetta.

Partendo dalla constatazione di questa realtà, necessita evidenziare punti di contatto che possano tenere insieme queste varie componenti, enfatizzandoli e tramutandoli in soluzioni concrete in grado, all’esito del lavoro di riforma, di rivedere radicalmente il patto che lega i vari volti della categoria, conducendolo nella consapevolezza che il futuro avvince tutti in un chiaro assetto da simul stabunt vel simul cadent.

Sotto l’aspetto previdenziale, appare chiaro, fatta salva la posizione di una sacca luddista, l’interesse a preservare una gestione previdenziale differenziata rispetto all’assicurazione generale obbligatoria (INPS), per una serie di motivi, dall’insieme dei quali enucleo in questa sede solo i principali: gestione autonoma dell’aliquota contributiva; gestione autonoma dell’”assetto prestazionale” del sistema; partecipazione democratica diretta alla gestione delle scelte di politica previdenziale da parte della platea degli iscritti, attraverso libere elezioni democratiche dei rappresentanti.

Solo questa triade di motivi dovrebbe bastare a considerare irrinunciabile la conservazione di uno spazio di gestione autonoma della previdenza di categoria. Basti pensare all’aliquota Inps, pari al 25% + 0,72% rispetto all’aliquota Cassa, pari al 15% + 4%. Pur volendo valutare, per i contribuenti gestione separata, la possibilità di applicare la rivalsa del 4% al committente, saremmo al cospetto di un maggiore onere contributivo Inps del 2,72%, con un regime prestazionale di Cassa imparagonabilmente migliore sotto tutti gli aspetti (previdenziale ed assistenziale) rispetto all’attuale assetto Inps.

Ed a questo snodo, emerge uno dei temi cruciali emergenti dall’analisi dell’attuale sistema Cassa: fino a quando, con le attuali dinamiche demografiche e reddituali, potremo permetterci un sistema performante nei termini di quello attualmente vigente?

Fino a quando i sacrifici imposti da un regime dal welfare pesante potranno essere sostenuti dalle spalle gracili di una categoria in grave sofferenza?

Tutti gli indicatori sembrano suggerire una risposta univoca: occorre intervenire al fine di scongiurare un veloce disallineamento dai parametri normativi di sostenibilità cinquantennali. Ragione che consente di poter affermare che il cantiere della riforma in Cassa è stato aperto a tempo debito.

Non si può perdere l’occasione per dare alla categoria una soluzione che contenga in sé le seguenti caratteristiche: 1) rappacificare le “avvocature”, individuando soluzioni in grado di sciogliere i nodi che affliggono le varie componenti; 2) garantire lo spazio di autonomia nella gestione previdenziale della categoria, attraverso la tempestiva correzione dei trends che potrebbero mettere in discussione la sostenibilità cinquantennale e di conseguenza l’autonomia previdenziale; 3) disegnare un sistema più leggibile per gli iscritti e maggiormente resiliente alla volatilità della contemporaneità.

Enucleate queste esigenze, è necessario pensare a misure di decontribuzione che comportino la radicale revisione del sistema dei minimi oltre che misure che lascino ai sopra soglia risorse da investire negli studi, per aumentarne la competitività ed incrementarne i livelli occupazionali, sia per ciò che concerne le posizioni di lavoro dipendente sia per le collaborazioni a vario titolo.

Il problema demografico impone di “stappare” l’ostacolo all’accesso dettato dall’insostenibilità della contribuzione. E’ evidente che con un reddito d’ingresso annuo medio dimezzatosi in pochi anni da circa 12 mila a 6 mila euro, le agevolazioni disegnate dall’ultima riforma appaiono insufficienti al fine di raggiungere lo scopo di non erigere barriere su base meramente censitaria all’accesso alla professione. Di fatto, per questa fascia la proiezione “di risulta” verso un pensionamento su basi contributive è già realtà. Appare pertanto argomento di facciata quello della conservazione di minimali sostenuti al fine di garantire l’adeguatezza delle prestazioni.

La scomparsa di aree della giurisdizione “bagattellare” a costi vivi zero, l’abbattimento drastico della remunerazione di quel tipo di contenzioso, ha “chiuso” la palestra nella quale le nuove leve, prive di sponsor familiari, politici o amicali, potevano misurarsi facendosi conoscere dalla committenza senza proibitivi investimenti iniziali. Questo consentiva alle intelligenze valide di farsi strada nella professione, pur partendo da zero. Detto fenomeno, in concomitanza con la contribuzione minimale, ha posto in essere uno sbarramento di carattere strettamente censitario che non seleziona in termini qualitativi, ma meramente quantitativo/relazionali/censitari. Il livello attuale della categoria non può permettersi di continuare ad ostacolare l’ingresso di intelligenze valide. Ed innescare la tendenza a premiare all’ingresso risorse valide vuol dire anche accesso di professionisti tendenzialmente più capaci di produrre reddito. Ne va anche dell’attendibilità e della qualità dell’intero corpo delle avvocature, con conseguente retrocessione degli spazi di incisività nella società contemporanea.

Sussiste, inoltre, un motivo più strettamente tecnico/previdenziale/attuariale che suggerisce un approccio diverso da quello degli ultimi anni: la dinamica demografica richiede la conservazione e l’espansione della platea contributiva al fine di garantire per un futuro più lungo possibile la continuità delle prestazioni. In quest’ottica, appare misura minima ed ineludibile un periodo di startup iniziale, quanto più lungo possibile, di applicazione del contributo soggettivo in misura strettamente proporzionale al reddito prodotto dal neo avvocato.

Detta misura potrebbe essere connotata da una visione responsabile, che consenta all’iscritto di scegliere: pagare il contributo soggettivo in misura direttamente proporzionale al reddito prodotto, prevedendo garanzie declinate in maniera differenziata rispetto a chi sceglierà di pagare sin da subito l’intero minimale. Questo al fine di declinare la misura in maniera tale da renderla totalmente compatibile con la sostenibilità finanziaria della gestione, argomento pseudo tecnico brandito dai (e da sottrarre ai) pasdaràn della contribuzione minima a tutti i costi. Questo sarebbe determinante anche per sottrarre altro argomento utilizzato da chi ostacola l’attuazione di una misura del genere: anche chi non paga i minimali godrebbe dell’assistenza come chi paga il minimale. Su questo punto, che scelga l’iscritto. Chi valuterà come prioritaria la decontribuzione all’attualità della sua carriera, opterà per il pagamento del soggettivo strettamente proporzionale al reddito prodotto, con tutele differenziate e minori rispetto a chi sceglierà di pagare il minimale per intero.

 Su questo punto è necessario uscire da un equivoco paternalista, secondo il quale l’ente previdenziale si connota quasi come depositario di una mission etica, educativa, che lo chiamerebbe a “snidare” chi non ha adeguato successo nella professione inducendolo a mollare, ove non riesca a produrre determinati livelli di redditività, anche attraverso l’utilizzo della leva previdenziale.

Questa impostazione spesso cela retropensieri ben determinati: l’uso della leva previdenziale in ottica anticoncorrenziale; l’automatismo secondo il quale al di sotto di un certo livello di redditi o non si è capaci o si è evasori. Indubbiamente v’è un’area collocabile in questi cliché, ma è altresì vero che v’è una larga fascia avvinta da gravi difficoltà reali, conseguenza delle contingenze contemporanee.  

Posizione più retorica, a difesa dei minimali, è quella secondo la quale in omaggio al totem dell’adeguatezza delle prestazioni è lecito chiedere sacrifici anche oltre le capacità reddituali degli iscritti. Detta impostazione si rileva come vuota retorica, se riflettiamo su un aspetto essenziale dell’attuale sistema: nell’anno in cui un iscritto paga il minimale senza avere un reddito sottostante corrispondente almeno al minimale, quell’anno gli sarà calcolato ai fini pensionistici non in base al contributo realmente pagato ma in base al minore reddito conseguito. Quindi, pago per reddito 10, guadagno 8…a livello di prestazione l’anno mi varrà 8…benchè abbia pagato per 10.

Per questi colleghi il sistema deve aprire uno spiraglio che consenta una fase di avviamento alla professione sgombera almeno dall’ostacolo caratterizzato dal minimale previdenziale. E’ uno dei passi fondamentali per la riconciliazione fra le avvocature.

In relazione alla difesa dell’autonomia previdenziale, la constatazione di anni di bilanci consuntivi chiusi puntualmente al di sotto delle previsioni attuariali, suggerisce una profonda ristrutturazione di sistema che crei la connessione più stretta possibile fra contribuzione e prestazioni. Per il 2019 il dato risulta ancora più eclatante, ove si consideri che ciò si è verificato nonostante una brillantissima performance degli investimenti.

E’ ora di virare su un sistema contributivo di calcolo delle prestazioni, legando le stesse in maniera diretta alla contribuzione versata. Rispetto all’attuale sistema retributivo si caratterizzerebbe per un maggiore livello di adattamento alle dinamiche reddituali della categoria, con inevitabile maggiore resistenza alle sollecitazioni tipiche delle fasi di crisi economica e demografica, con spiccate caratteristiche anticicliche. Si acquisirebbe, inoltre, una maggiore linearità e trasparenza di lettura del funzionamento del sistema, con inevitabile incremento del livello di fiducia nella platea degli iscritti.

Totalmente infondato, sul punto, l’argomento secondo il quale contributivo = prestazioni inadeguate e zero assistenza. Rivedendo l’insieme del monte prestazioni è possibile fare assistenza, chiaramente declinata in maniera coerente con l’attuale capacità reddituale della categoria, oltre che cogliere l’obiettivo di prestazioni adeguate che siano in relazione corretta col monte contributi versato. Detta impostazione è avallata da autorevoli ambienti accademici ed è la tendenza verso la quale va anche l’AGO per le partite iva, compresa la previsione di superamento dei minimali anche per le categorie che vi sono attualmente sottoposte.

Ed il riassetto ovviamente va fatto tenendo d’occhio le peculiarità di vantaggio che la gestione autonoma di una cassa di categoria consente, permanendo ampi spazi di differenziazione rispetto all’AGO, aspetto che enfatizza l’esigenza di preservarla e conservarla per un futuro quanto più lungo possibile.

Per non mancare questi obiettivi occorrerà tutto il coraggio e la lungimiranza delle migliori componenti dell’avvocatura. Approdi inevitabili per tenere viva la speranza di un futuro possibile per tutte le avvocature, possibilmente riconciliate, in Italia.

Avv. Giuseppe Fera

Presidente nazionale Nuova Avvocatura Democratica

Delegato Cassa Forense 2019/2022

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