I RE DEGLI IGNORANTI

29 Marzo, 2018 | Autore : |

 

Le implicazioni del suffragio universale sulla qualità dei governi sono sempre più dibattute. Il voto, che per molto tempo ha rappresentato l’elemento mitizzato che marcava il discrimine tra potere e libertà, da un lato, e subordinazione, dall’altro, mostra ormai di non tenere il passo con le trasformazioni che stanno connotando la politica dei nostri tempi. Nella società dell’incertezza, dominata dalla paura, dalla scomparsa del lavoro e del reddito, il voto è diventato uno strumento sempre meno importante per definire e qualificare l’integrazione del cittadino all’interno del corpo sociale costituito.

In un lavoro che ho proposto qualche tempo fa, “Dialogo sull’avvocatura italiana”, analizzavo il fenomeno del diritto come ricerca di punti equilibrio mobili, in uno con una società che diventa sempre meno disposta a muoversi inseguendo istituti giuridici statici. Il fenomeno giuridico diventa sempre più spurio e sempre più si nota la mescolanza di elementi un tempo distinti tra di loro, che oggi contribuiscono a formare un magma impossibile da confinare negli ambiti classici della teoria e dell’operatività del giurista monodimensionale.

In particolare questo processo di progressiva fluidificazione dei punti di equilibrio del diritto, sta effettivamente mostrando le caratteristiche a cui avevo già fatto riferimento: da un lato, lo sforzo di giungere ad un diverso concetto di adesione delle norme e dei precetti alle esigenze degli individui, dall’altro il rischio di un Ordinamento incapace di legarsi a sistemi di valori tali da guidare la società. In altri termini il diritto contemporaneo pare muoversi in una dimensione ambigua e bifronte: se per un verso esso è paragonabile ad una barca veloce, capace di solcare il mare in modo agile, per converso c’è chi potrebbe dolersi di non poter mai dire con certezza in quale porto detta barca getti l’ancora, lasciando l’interprete ed il cittadino in preda al capriccio dei venti, o degli uomini.

 

 

Appare indubbio che la dimensione incerta e mutevole del diritto aperto stia sempre più mirando a ridurre lo scarto tra impostazioni dominate da un forte sentimento pubblico e i bisogni concreti, tangibili, di cui gli individui necessitano. In questa progressiva tensione ideale verso un umanesimo “giuridificato” va però riscontrato l’oggettivo arretramento dello Stato dai fenomeni di applicazione pratica del diritto. La macchina giudiziaria segna il passo, è ormai chiaramente inefficace ed inefficiente, non tiene il ritmo dell’elaborazione intellettuale connaturata alla giurisprudenza più avanzata, che detta principi, valori e riferimenti metagiuridici, ma non riesce ad offrire soddisfazione agli interessi di chi si rivolge al diritto per ottenere giustizia.

Il diritto sfuggente, transnazionale, non più legato alle entità vicine al cittadino, ma spesso prodotto da luoghi e fenomeni troppo distanti e mediati per poter essere interiorizzati, favorisce una delle maggiori degenerazioni della socialità dei nostri tempi, ovvero “la democrazia della distanza”.

 

 

Società dell’incertezza e democrazia della distanza sono concetti strettamente correlati. La rinuncia al contatto con le fonti del diritto, sia teorico che pratico, non è stata una scelta che il cittadino ha vissuto a cuor leggero. Le colpe della divaricazione tra norma, precetto, obbligo e individuo, derivano da asimmetrie che hanno lasciato l’uomo comune privo dei mezzi per poter mantenere una vicinanza con l’ordinamento. Nonostante questa evidente sproporzione, legata al gigantismo ipertrofico del corpus normativo, alla mostruosità delle mille e mille situazioni che concorrono a definire le prerogative e le possibilità del cittadino, è assurdo notare come i processi di semplificazione, delegificazione e avvicinamento del diritto pratico alle esigenze immediate dei singoli siano ancora in alto mare. Assistiamo ad una sorta di paradosso, per cui vi è un aumento esponenziale delle qualificazioni mirate a definire e riconoscere nuove sfere dei diritti soggettivi, ricercando implicazioni sempre più ardite nelle interazioni con la tecnica, la scienza, la psicologia e la sociologia, ma il contraltare di questo sforzo è il mancato funzionamento di una macchina giudiziaria asfittica, sciatta, spesso gestita da figure assolutamente inadeguate, carenti di quegli elementi culturali ormai fondamentali per poter fare diritto e giustizia.

La stratificazione delle inefficienze del processo pubblico, certificata da livelli di soddisfazione individuale strettamente connessi al censo dell’individuo, sta di fatto rendendo vana l’opera di ingegno di chi, su un piano che rischia di apparire esoterico ed iniziatico, esprime l’anelito ad un progresso sociale, ottenuto per mezzo della fenomenologia giuridica, che non riesce praticamente mai a tradursi in fatti giudiziari soddisfacenti, rapidi, efficaci ed effettivi.

 

 

Emblema di questo scollamento, seppure rappresentato da un dibattito pubblico fortemente banalizzato, è riassumibile nella cosiddetta “incertezza del diritto”, spesso confusa con la cosiddetta “certezza della pena”. Senza dilungarsi in aspetti tecnici che esulano dalle finalità di questo articolo, ciò che occorre comprendere è che l’incapacità dell’ordinamento di legare la scommessa dell’esperienza giudiziaria a valori giuridici fortemente radicati, comprensibili ai più, ed allo stesso tempo rigorosi, incide in modo devastante sul rapporto tra cittadino e cosa pubblica.

Laddove viene a mancare il riconoscimento dei fatti di diritto come espressioni del giusto, non è più possibile fingere stupore se la reazione dell’individuo è il distacco, il disinteresse, l’astio, nei confronti di un sistema che appare arbitrario, abusivo, irrazionale e che fa davvero poco per dimostrare il contrario ed accreditarsi, guadagnandosi la fiducia nella sua legittimità.

 

 

Si potrebbe discutere a lungo di come incidere concretamente nei meccanismi di una giustizia che voglia ritornare giusta e vicina ai cittadini, ed indubbiamente il tema dovrebbe assumere peso centrale nelle analisi che si chiedono il perché dei fenomeni di imbarbarimento della politica, che pure appare ferita dai fatti brevemente enunciati in questa riflessione. L’astensionismo, il qualunquismo, l’antipolitica, le spinte e le pulsioni demagogiche, il rifiuto della dimensione pubblica della cittadinanza, non possono essere adeguatamente comprese se non si accetta di guardare al fallimento del diritto, come motore di inclusione e stabilizzazione delle esigenze del cittadino contemporaneo.

Si tratta di un problema che sta a monte delle sintomatologie lamentate dai gruppi dirigenti istituzionalizzati, ma che vede un’attività quasi inesistente, sia sul piano culturale e pedagogico, sia su quello strettamente politico, in favore di un ripensamento del modo di fare giustizia.

 

Tornando al voto, alla sua progressiva perdita di senso, nell’ambito dei processi di inclusione democratica, se si analizza la crisi del diritto pratico e la si mette in relazione con la democrazia della distanza, la chiave di lettura delle spinte più cruente alla destrutturazione sociale in atto nel mondo occidentale fa meno fatica ad essere accettata.

Senza diritto e giustizia si acuiscono le incertezze connesse alla perdita delle identità e delle tutele assistenziali. Le dinamiche che negli ultimi 30 anni hanno inesorabilmente spostato valore dal cittadino all’immaterialità, alle entità sovranazionali, ai gruppi di potere cementati dalla pratica di una tecnica del tutto avulsa dal dibattito politico democratico, stanno producendo una società che non offre agli individui alcun riferimento. Ecco dunque che l’immagine di una barca eternamente in mare dimostra la sua validità nello spiegare l’alienazione e la chiusura che i cittadini maturano, allontanandosi sempre più dalla politica, dalle istituzioni statali, ed in definitiva dalla società, così come abbiamo tentato di costruirla, attraverso il primato delle leggi.

 

 

La costruzione di un dialogo continuo tra esperienza filosofica, giuridica e politica, da un lato, e cittadino in fieri, dall’altro, è dunque una pressante necessità, che però non può vedere la croce gettata sulle spalle del sopravvivente, del cercatore di reddito, ma deve chiamare i gruppi dirigenti ad uno sforzo di responsabilità autonome.

Ricostruire fiducia nella cosa pubblica, nella giustizia, nei tribunali, nella politica, semplificare e ridurre il numero di processi che oggi opprimono e assillano il cittadino comune, possono apparire provvedimenti distanti dai temi “di merito” che fanno la parte del leone nel racconto delle dialettiche in atto nella nostra società. Si tratta di una visione miope, destinata inevitabilmente alla disfatta. Senza che il diritto vivo ed efficace riprendano il loro primato, la società dell’incertezza, la democrazia della distanza e la progressiva erosione delle identità civili non faranno che amplificare la portata antisociale che stanno già esprimendo in questi anni.

I dominatori di questo scorcio di secolo stanno facendo i conti con una nuova era di dissimulazione del sapere, che muove miliardi di persone in un flipper telematico, compulsivo, bulimico, i cui risultati non sembrano in alcun modo contribuire ad indicare una linea di progresso della convivenza civile.

C’è bisogno di una barca pronta a navigare verso mari mai solcati prima, che non abbia timore dell’ignoto, ma che possa offrire ai suoi marinai il rifugio sicuro di un porto attrezzato, quando la burrasca rischia di far affondare lo scafo.

 

Avv. Salvatore Lucignano

 

 

 

 

 

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