DDL FALANGA: LA SCORIA INFINITA

7 Maggio, 2017 | Autore : |
Il DDL Falanga contiene almeno quattro macroscopiche falle, dal punto di vista giuridico, che Nuova Avvocatura Democratica ha denunciato agli avvocati italiani più e più volte. Sono fatti noti, di pubblico dominino, ma a nessuno interessa porre rimedio a tali situazioni, perché la democrazia e i sistemi elettorali per garantirla, sono argomenti odiati dalle istituzioni forensi ed ignoti agli avvocati, a cui non importa minimamente avere istituzioni elette legittimamente.
 
Illustriamo nuovamente le mostruosità del DDL in oggetto:
 
1. PREFERENZE PLURIME, CON CANDIDATURE INDIVIDUALI.
L’art. 8.1. del DDL recita: “Gli avvocati possono presentare esclusivamente candidature individuali“. L’art. 4.1. prevede che si possano esprimere preferenze fino ai 2/3 dei Consiglieri eligendi.
La coesistenza di queste due norme, sul piano giuridico, è una vera aberrazione, che non ha alcun senso, e dimostra come la materia venga trattata con superficialità, o forse con voluta imperizia.
Lo scopo naturale delle preferenze plurime infatti è quello di indicare più Consiglieri, cioè una composizione del Consiglio da eleggere. All’elettore viene concesso di votare sino ai 2/3 dei componenti dell’Ente, in modo che egli possa dare una fisionomia ad una quota maggioritaria dello stesso. In altri termini, lo scopo della preferenza plurima non è di scegliere “un” Consigliere, ma i 2/3 dei Consiglieri. Indipendentemente dalla possibilità di votare un numero ridotto di candidati, la possibilità di indicarne un numero così ampio, è palesemente legata alla volontà del legislatore di favorire un’indicazione collettiva e non individuale. 
A che scopo dunque prevedere esclusivamente candidature individuali? Ebbene, lo scopo del meccanismo previsto con la candidatura individuale è chiaramente quello di impedire la formazione di liste di candidati. Si vuole in pratica che i candidati si presentino agli elettori singolarmente, senza legami con altri candidati. Nella logica di tale impostazione, sarebbe stato pertanto doveroso prevedere il meccanismo della preferenza unica. 
Cosa avverrà invece, coniugando l’assenza di liste (solo formale), con la possibilità di attribuire preferenze plurime? Ovviamente, come ben sanno i curatori del DDL, i candidati aggireranno facilmente l’obbligo di presentare candidature singole, componendo liste occulte, che verranno presentate agli elettori in modo ufficioso e saranno composte di 2/3 dei Consiglieri da eleggere. 
Qualcuno crede che un tale effetto sia solo “casuale”? Onestamete appare difficile crederlo.
2. ILLEGITTIMITA’ DEL SISTEMA A PREFERENZA PLURIMA, PRIVO DI QUOZIENTE DI LISTA. 
Su questo aspetto Nuova Avvocatura Democratica si è soffermato già numerose volte, per dire che non esiste un sistema elettorale legittimo, che consenta l’espressione di preferenze plurime, senza contemporanemente prevedere il quoziente di lista. 

Perché il quoziente di lista è così importante in un’elezione a preferenza plurima? A cosa serve questo ulteriore meccanismo? Anche qui, per far comprendere la sua funzione a chi non è pratico della materia, non c’è modo migliore di agire che quello di operare un esempio numerico. Si immagini un corpo elettorale composto da 40 elettori, che debba eleggere un’assemblea di 20 eletti. Si immagini dunque che ciascun elettore, per questa elezione, possa esprimere 20 preferenze, ovvero tutte quelle relative al numero di candidati da eleggere, e che in questa elezione si confrontino 21 candidati. A questo punto è facile comprendere cosa accada in presenza di quoziente di lista, ovvero in sua assenza. Si immagini che 20 candidati su 21 si raggruppino in una lista, facendo questo banale ragionamento: “se ci votiamo a vicenda, esprimendo il massimo di preferenze possibili, possiamo aumentare il numero dei voti di ciascuno di noi”. Si immagini ancora che il 21esimo candidato si sia candidato da solo, contro la lista, perché intende manifestare una propria autonomia, o comunque diversità, dalla lista di 20 candidati con cui si confronta.

All’esito del voto si immagini questo risultato: 19 candidati della lista a 20 hanno riportato 21 voti ciascuno, il ventesimo candidato di quella lista ha riportato 20 voti, mentre il ventunesimo candidato, quello presentatosi da solo, ne ha riportati 19. In assenza di un quoziente di lista risulteranno eletti tutti i candidati della lista, che hanno riportato più voti del singolo candidato estraneo alla lista. L’effetto maggioritario in questo caso agisce in modo totalizzante: basta un singolo voto di margine al ventesimo eletto a superare l’avversario solitario estraneo alla sua lista.

 

Proviamo però a porci un’altra domanda: quanti elettori esterni alla lista ha conquistato la lista vincente? Presumibilmente pochi, se si immagina che i candidati uniti nella lista si siano sostenuti più o meno a vicenda ed hanno riportato un numero di voti sostanzialmente pari a quello dei candidati della lista.

Quanti elettori estranei alla sua posizione ha conquistato il candidato singolo? Beh, presumibilmente 18, se si immagina che egli abbia votato per se stesso e dunque molti più di quelli conquistati dagli “alleati” della lista concorrente.

Quale è la divisione dei voti tra la lista vincente e il candidato perdente? Presumendo che gli elettori del candidato solitario non abbiano assegnato preferenze ai suoi avversari in lista, e considerando un numero di preferenze di 21 per i più votati esponenti della lista e di 19 per il candidato solitario, si può parlare di una divisione pressoché paritaria del corpo elettorale, composto da 40 elettori.

Eppure? Eppure, nonostante la capacità del candidato singolo di conquistare più voti, oltre a quelli del proprio schieramento, ed una proporzione quasi paritaria tra i  propri elettori e quelli della lista avversaria (21 a 19), detta lista esprime tutti i seggi dell’assemblea, e il candidato opposto a tale lista non riesce a conquistare nemmeno un singolo seggio.

Come agisce dunque l’assenza di quoziente di lista, in elezioni con preferenza plurima? Semplice, amplifica al massimo l’effetto maggioritario, indipendentemente dal rapporto di riduzione, rendendolo totalizzante e trasformando l’elezione, di fatto, in una contesa in cui l’assemblea è vista come un collegio maggioritario, in cui un singolo voto in più prende tutto.

 

 

3. IL RINNOVAMENTO ANCORA TRADITO? 

 

 

Il DDL Falanga, in una delle versioni precedenti agli emendamenti che lo hanno visto approvare dal Senato della Repubblica, in data 12 aprile 2017, conteneva una norma che impediva in ogni caso la candidatura ai Consiglieri dell’Ordine che avessero svolto tale incarico per oltre 10 anni. Tale norma, nella versione oggi in discussione alla Camera dei Deputati, è scomparsa, lasciando come unico baluardo, capace di impedire il riproporsi dei Consiglieri eternamente votati al sacrificio dell’incarico, il dettato disposto dall’art. 3.3. del DDL, ovvero: “fermo restando quanto previsto al comma 4, i consiglieri non possono essere eletti per più di due mandati consecutivi.

Al  successivo comma 4 si prevede che: “dei mandati di durata inferiore ai due anni non si tiene conto ai fini del rispetto del divieto di cui al secondo periodo del comma 3.

 

La norma è identica a quella prevista dall’art. 28 n. 5 della Legge n. 247/2012, che il DDL in oggetto, peraltro, abroga. Questa disposizione è già stata oggetto di impugnazione, nelle elezioni svoltesi nel 2014, ed ha già visto il Consiglio Nazionale Forense, impegnato in una feroce e scorretta battaglia contro il rinnovamento dei Consigli dell’Ordine, pronunciarsi in favore di una interpretazione “futura” del precetto, sottraendo alla vigenza della legge i mandati svolti prima della sua emanazione. Ovviamente si tratta di un’interpretazione illegale, già smentita, con interpretazione granitica, dalla Corte di Cassazione. Al Consiglio Nazionale Forense però tutto questo non importa. I giudizi, prima di giungere a sentenze in Cassazione, impiegano anni. Il motto delle istituzioni forensi è: “avvocato, ci faccia causa, tra dieci anni si vedrà, ma per ora facciamo i nostri comodi“.

 

4. ELEZIONI FARLOCCHE.

 

 

Infine, come ultimo punto da analizzare in questa ennesima legge malfatta, rimane la previsione, dettata dalle norme di chiusura del DDL, che i Consigli non ancora rinnovati, o comunque sub judice, quanto ai propri rinnovi, procedano ad elezioni, per un periodo di validità dell’Ente rinnovato, che giunga sino al 31 dicembre 2018. Considerando che queste riflessioni vengono scritte il 7 maggio 2017, che nell’ipotesi più rosea il DDL Falanga vedrebbe la luce nell’estate a seguire, è evidente che una prima data utile per le elezioni previste dalla Legge sarebbe da fissare nell’autunno del 2017. Si tratterebbe insomma di rinnovare Consigli dell’Ordine degli Avvocati di Fori importantissimi, quali ad esempio Roma e Napoli (rispettivamente primo e terzo Foro d’Italia), per un periodo di poco superiore ad un anno, in attesa di rinnovare nuovamente il Consiglio, nel gennaio del 2019.

 

Un vero colpo di genio, che completa un quadro desolante, in cui purtroppo, agli avvocati che credono nella professione e nell’Ordine Forense, non resta che piangere, o combattere.

http://https://www.youtube.com/watch?v=8fld1E-b4Go

 

 

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