FACCIO L’AVVOCATO PERCHE’ NON SO CANTARE O BALLARE.

17 Gennaio, 2017 | Autore : |

Sono un uomo totalmente privo di talento. C’è chi fa l’avvocato per vocazione, ma io no. Io faccio l’avvocato perché non so fare proprio niente di diverso. Fin da bambino mi dicevano: “da grande farai l’avvocato”. Io pensavo “bah” e non avevo la minima intenzione di fare l’avvocato. Mi iscrissi ad economia aziendale, perché ci avevano raccontato che con una laurea in economia “si lavorava”, ma il diritto era l’unica cosa che sapessi fare, mentre avvertivo che la matematica “non sarebbe mai stata il mio mestiere”. Così ho studiato il diritto e sono diventato avvocato. Ricordo ancora il mio primo atto, assegnatomi dal dominus: una chiamata in causa del terzo in giudizio. Per qualche secondo pensai: “oddio… ed ora? Cosa è questa roba? Chi l’ha mai vista?”

Per fortuna però, so fare il diritto. La feci quella chiamata e da lì non mi sono quasi mai fermato. Il diritto mi riesce facile, ma è davvero l’unica cosa che sappia fare.

Da allora è passato tanto tempo, oltre dieci anni. Io sono diventato un avvocato. Ricordo che all’inizio pensavo: “ma chi dovrebbe mai affidarmi un incarico?” Oggi, devo essere onesto, la cosa mi sorprende un po’ meno, ma nonostante questo non sono rare le occasioni in cui mi chiedo: “ma perché io dovrei essere in grado di risolvere questo problema?”

 

 

Faccio dunque l’avvocato. Ricordo l’esame di abilitazione: quella gigantesca macchina di corruzione e degrado, alla Mostra d’Oltremare di Napoli. Ricordo i miei trolley, pesantissimi, con i codici commentati di ultima generazione e il mio vestito buono, il migliore che avevo. Mi scontrai di buon mattino con una folla di partecipanti vestiti “casual”: sembrava di essere ad un concerto di Pino Daniele.

Fu uno dei primi segnali. Al secondo giorno, al parere di diritto penale, un pezzo di immagine decorosa dell’avvocatura era già distrutta. Al bagno si accedeva per bisogno. Una guardia di cui è pietoso tacere il nome chiedeva: “fisiologica?”

Ricordo che dovevo fare pipì e non capivo. “Come?”

“Fisiologica?” Insisteva lui. Allora capii. Se dovevi copiare era un conto, se dovevi fare pipì era un altro. Ricordo i commissari, che non sapevano ascoltare le tracce, ricordo la mia sicumera. Non avevo alcun dubbio di saper svolgere i compiti da solo e senza alcuna difficoltà. Il diritto è l’unica cosa che so fare, ve l’ho già detto, vero?

 

“Tutte arance”, pensavo tra me e me, mentre vedevo migliaia di individui affannati, sudati, terrorizzati, mentre vedevo commissari che cercavano di sbirciare i miei compiti, perché qualcuno gli aveva detto che “quello che non parla con nessuno è bravo…”

Già, tutte arance. Tutti avocati dallo Spirito Santo. Avvolti da una nube, vocati. La vocazione. Siamo duecentoquarantamila vocati avvocati. Guai a parlare di avvoltoi. Siamo avvolti. Avvolti dalla nube che ci ha infuso la vocazione.

Sorrido, ma è un riso amaro. Quante ne potrei raccontare… quante ne ho viste, in questi oltre dieci anni.

 

 

Ricordo al mio giuramento. Il Presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Napoli ci fece aspettare parecchio e già questo mi irritò moltissimo. Odio aspettare e soprattutto odio chi non è puntuale. Poi però parlò. Ci racconto di come il Consiglio dell’Ordine si stesse prodigando in iniziative fondamentali per il nostro futuro. Parlò dell’Egitto, o roba del genere. Avevo poco più di trent’anni, un futuro nebuloso ed oscuro davanti ai miei occhi e nessuna voglia di ascoltare retorica da pochi soldi.

 

 

 

Quante ne potrei raccontare, quante ne ho viste, in questi anni!

Ero bravo a fare l’avvocato. Ai miei dominus ero piaciuto, mi facevano occupare delle cose più difficili. Il diritto è l’unica cosa che sappia fare, sono un uomo totalmente privo di talento. Avevo conseguito il compimento medio superiore di chitarra classica, presso il Conservatorio Statale di Benevento, ma ero così scontento della mia evidente assenza di talento, da mettere la chitarra in un angolo e non toccarla mai più. Sono passati oltre dieci anni da allora, anni in cui ho fatto l’avvocato, ma non l’ho più ripresa, né toccata. Sono un soccombente, mio malgrado, e nonostante quasi nessuno possa comprendere il parallelo.

 

Il vecchio Presidente dell’Ordine sembrava simpatico. Quello nuovo era più giovane, ma al giuramento non mi aveva favorevolmente impressionato. Io lavoravo, in silenzio. Non sapevo nulla di ciò che avveniva nella mia professione, non mi interessavo di nulla che non fosse il mio lavoro. Poi qualcosa è cambiato. Hanno cominciato a dirmi che dovevo fare questo e quello, pagare questo e quello, iscrivermi ad una cosa chiamata “Cassa Forense”.

Ricordo che mi chiedevo perché un giovane avvocato, praticamente nullatenente e con reddito zero, dovesse pagare “i contributi minimi”. Non lo trovavo giusto e nonostante io sia un uomo totalmente privo di talento e faccia l’avvocato perché non so fare altro, quell’ingiustizia proprio non la reggevo. Così ho cominciato ad interessarmi della mia professione, a dire la mia, a scrivere, a combattere. Sono già passati più di tre anni, come vola il tempo!

 

Sono diventato vecchio. Ho una figlia meravigliosa e non ho paura di nulla. Ho conosciuto tanti avvocati. Ho conosciuto le istituzioni forensi e gli uomini che le occupano. Ho conosciuto i Consiglieri dell’Ordine di varie parti d’Italia. Ho visto truffatori, arrivisti, avventurieri, servi e ciambellani, aedi e ruffiani, vigliacchi, delatori, tromboni, persino qualche avvocato.

 

Io? Io faccio l’avvocato, perché non so fare altro, anche se continuo a non accettare le ingiustizie che mi fanno, perché non mi va. Ora, pare che per questo difetto, io non possa e non debba più fare l’avvocato. Mi chiedo “che farò?” e mi prendo in giro da solo. Per fortuna sono vecchio.

 

 

 

 

 

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