RIFLESSIONI SULLA RIFORMA DEL PROCESSO CIVILE

23 Ottobre, 2018 | Autore : |

C’è naturale fermento attorno al progetto di riforma del processo civile annunciato dal Ministro della giustizia, Alfonso Bonafede, durante il congresso della Camere civili.
Come troppo spesso accade, molti Avocati non si distinguono per originalità nella reazione alzando un muro rispetto alle linee guida indicate. Una reazione naturale, forse, dettata dalla furia riformista che ha caratterizzato gli ultimi tre lustri con provvedimenti spesso inutili e riforme che non hanno passato il guado della operatività sul campo. Basti pensare alla riforma del procedimento avente ad oggetto il diritto societario o al fallimento della riforma dell’art. 183 VI comma c.p.c. che non ha avuto lo sperato esito deflattivo condannandosi all’automatismo della sua concessione.
Il problema è sempre lo stesso. L’Avvocatura, senza peso politico, è incapace tanto di essere interlocutore di peso al tavolo delle riforme quanto ad offrire spunti di riflessione legati al suo ruolo all’interno delle dinamiche processuali.
Il rischio, poi, è sempre lo stesso. Una riforma, qualsiasi riforma, legata alla contingenza piuttosto che alla visione prospettica ed agli equilibri in campo è destinata a fallire.
Le premesse del Ministro, come tutte le premesse, sono positive. Il richiamo alla antistoricità della tecnica legislativa operata sui rimandi incrociati è più che condivisibile. Chiunque abbia mai letto un mille proroghe, ad esempio, sa quanto sia tortuosa la ricostruzione della normativa applicabile ad un caso di specie e, spesso, la ricostruzione diventa operazione ermeneutica ardua in materie delicatissime, quali la previdenza o il diritto del lavoro, laddove fonti concorrenti si appalesano come in contrasto tra loro.
È, altresì condivisibile, l’idea di abolire l’obbligatorietà della mediazione in alcune materie (quali?). Anche in questo caso il problema non è nell’efficacia dell’istituto, ma nel suo inserimento in un contesto nel quale la parte che vuole lucrare sulla rendita di posizione derivante dalla lunghezza dei tempi processuali ha buon gioco. Se nel processo entrasse, di forza, la punizione del comportamento preprocessuale delle parti, sarebbe meglio. Una parte che si sottrae alla ricerca dell’accordo, che non risponde ai tentativi della controparte volti ad una composizione (e qui la negoziazione assistita potrebbe avere un forte impatto), o si trincera dietro comportamenti evidentemente dilatori, dovrebbe trovare, se soccombente in Giudizio, totalmente o parzialmente, una forte demotivazione a comportamenti simili nel futuro con una condanna che risarcisca tale condotta al di là delle ristrette previsioni vigenti, scarsamente applicate dai Giudici.
Anche la semplificazione dei riti è un obiettivo più che condivisibile. Non ha alcuna utilità, infatti, la coesistenza di riti diversi in un processo che, al di là della cognizione sommaria, ha il suo svolgimento in tre macrofasi costanti: 1) introduzione del giudizio, 2) istruttoria; 3) fase decisoria.
Il ricondurre il tutto alle forme del ricorso non appare sbagliato in astratto, ma cozza con un dato empirico che, forse, sfugge al Ministro ed ai suoi consiglieri. Nella prassi i giudici chiamati a fissare le udienze di comparizione\discussione provvedono a calendarizzarle con sbalzi temporali contrari ad ogni logica e Giustizia per il cittadino e per l’avvocato, contribuendo a garantire il malcostume della resistenza capziosa in Giudizio. Vedersi fissare riti Fornero a 10-12 mesi, udienze per ATP previdenziali ad un anno, ricorsi lavoro e 702 bis a 15 mesi, pignoramenti presso terzi a due anni, è un’onta alle elementari istanze di Giustizia di un Sistema che vuol definirsi civile.
La lunghezza dei tempi del processo, infatti, non deriva dalla sola criticità dei riti, ma molto di più da una macchina della Giustizia divorata dalla propria burocratica inefficienza ed da una parte della magistratura che vive la propria funzione nella peggiore accezione impiegatizia. Questa considerazione, naturalmente, non vuole sottostimare il disagio patito dai magistrati per un carico di lavoro spesso al di là del tollerabile, questione che non può imputarsi né alla cittadinanza, né agli avvocati.
La riconduzione dei riti al solo ricorso, quindi, non è risolutivo o deleterio in sé, ma lo sarà solo se verrà inserita in una macchina della Giustizia efficiente nel garantire il rispetto di tempi tassativi di fissazione e celebrazione delle udienze.
Ma ancora si ragiona in termini novecenteschi. Chi frequenta le aule di Giustizia civile è ben consapevole che gran parte delle udienze di un processo celebrate innanzi al Giudicante sono, sostanzialmente, inutili traducendosi in rinvii ad altra udienza con richiesta di concessione di termini per memorie o all’esito del deposito di memorie. Tale attività potrebbe ben essere celebrata telematicamente riducendo la presenza fisica in udienza alle circostanze strettamente necessarie (tentativo di conciliazione, interrogatorio formale, prova testi). Esempi paradigmatici per chi frequenta le aule di Gisutizia possono essere rappresentati dall’udienza successiva al deposito delle note ex art. 183 VI cpc, dalla udienza di precisazione delle conclusioni, dall’udienza di nomina del CTU nelle ATP in materia previdenziale. Il deflazionamento delle udienze gioverebbe al processo che vedrebbe la propria celebrazione in un clima degno della materia somministrata con giovamento tanto dei giudicanti quanto dei difensori. Si pensi al clima indegno nel quale, spesso, vengono celebrate le escussioni dei testi con grave vulnus per la serenità di tutti i partecipanti.
La fase istruttoria, poi, con un po’ di coraggio e dando centralità alla figura ed alla funzione degli avvocati, potrebbe essere ulteriormente snellita attraverso l’introduzione nel giudizio civile italiano dell’affidavit di matrice anglosassone. La prova per testi, in tal caso, potrebbe essere fisicamente raccolta davanti al Giudicante solo nei casi in cui il contrasto tra i documenti allegati in atti possa far ritenere la sussistenza di false dichiarazioni (con le relative conseguenze penali) ovvero allorquando il Giudicante, anche sollecitato dalle parti, ritenga di dover procedere ad un supplemento d’indagine rispetto ai fatti emersi.
Si ritiene, ancora, che una riforma del processo civile che non preveda l’introduzione dei punitive damages e delle cauzioni endoprocessuali, a garanzia almeno delle spese processuali, in determinate materie è una riforma che guarda al passato remoto più che al presente ed al futuro. La class action, inoltre, senza punitive demagese è un non senso giuridico.
Il Ministro, poi, non ha parlato né di processo esecutivo né di ristrutturazione del debito\ risoluzione della crisi da sovraindebitamento. Due facce della stessa medaglia. Due istituti in crisi profondissima, per motivi diversi, ma fondamentali per l’economia collettiva. In un’economia stagnante, nella quale vincoli di bilancio restrittivi e cessione di sovranità monetaria impediscono politiche che incidano direttamente sulla circolazione della moneta, l’unico modo per riequilibrare il sistema è quello della risoluzione agevolata e concordata delle crisi e la possibilità di utile liquidazione dei patrimoni a garanzia dei crediti. Un’esecuzione che duri 15 anni non soddisfa il creditore; un debito inesigibile non lo arricchisce e rendendo il debitore un individuo giuridicamente morto.
Riassumendo, appare evidente che nessuna riforma che si fermi alla mera riformulazione dei riti possa affrontare l’attualità ed il futuro a medio termine. Nessuna riforma che non incida profondamente sulle metastasi culturali che impediscono una visione evolutiva del diritto, è destinata al fallimento. Nessuna riforma che non veda gli avvocati protagonisti attivi della somministrazione della Giustizia civile, è puro esercizio retorico.

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