Legge professionale forense: il rinnovamento tradito?

12 Dicembre, 2014 | Autore : |

Nel 2012 veniva emanata la legge n. 247, avente ad oggetto il riordino della professione forense. Nel nostro paese vi sono circa 240 mila avvocati iscritti agli albi. Un numero impressionante, che non ha pari al mondo e che, anche per questo, sta vivendo una crisi senza precedenti. Uno dei problemi che la legge 247 intendeva affrontare era proprio quello di trovare risposte al declino della categoria, che ha radici lontane e vede questo corpo sociale intermedio, di straordinaria importanza per la tenuta democratica del paese, andare verso la radicalizzazione di proteste estreme, determinate da gravi disagi lamentati dai suoi appartenenti.

Inoltre, anche nella nostra categoria si sta verificando ciò che in questi anni è emerso nel paese: un forte e progressivo distacco della base dalle proprie rappresentanze politiche ed istituzionali.

Un distacco che somma alla crisi economica e di ruolo dell’avvocato, quella delle proprie classi dirigenti, che negli ultimi tempi hanno dimostrato in più occasioni di non essere in grado di guidare i propri rappresentati verso soluzioni progressiste, che riducano l’ipertrofia giurisdizionale, di cui il paese soffre ormai terribilmente, ma che allo stesso tempo offrano all’avvocato nuovi ambiti operativi e possibilità economiche.

Per adeguare la rappresentanza forense alle esigenze della contemporaneità, la legge professionale intendeva relegare gli Ordini professionali ad un ruolo meramente amministrativo, affidandogli la rappresentanza istituzionale dell’avvocatura ed estromettendoli al contempo dalla sua guida politica, riservata al Congresso nazionale e all’Organismo Unitario da esso eletto, con voto capitario e democratico.

Questo assetto però, a distanza di quasi due anni dall’approvazione della legge, non è stato ancora realizzato, principalmente per via di una della feroce opposizione interna, praticata da esponenti degli Ordini Circondariali più numerosi, che non vogliono cedere il proprio potere politico e mirano a mantenere un ruolo egemone nella categoria.

L’avvocatura italiana è dunque impegnata in uno scontro aspro, che oggi vede nel rinnovo dei Consigli degli Ordini circondariali, in programma nel prossimo gennaio, il suo momento forse decisivo. E’ infatti in atto un tentativo di conservazione, che intende serrare la porta a qualsiasi forma di rinnovamento e discontinuità, elementi invocati da una cospicua parte della categoria e comunque non più rinviabili.

Lo strumento normativo per tentare questo colpo di mano si chiama “sovietichellum”, ovvero il regolamento elettorale, emanato dal Ministero della Giustizia con decreto n. 170/2014, che consentirà, in spregio all’art. 28 n. 3 della legge professionale, di far esprimere al singolo elettore non già un massimo dei 2/3 dei consiglieri dell’Ordine da eleggere, ma la totalità dei componenti del consesso, consentendo così alla lista che ottenga anche un solo voto in più dei propri avversari, di esprimere l’intero Consiglio, annullando ogni dialettica interna all’organo ed escludendo i soggetti emergenti o non allineati dalla rappresentanza istituzionale dell’avvocatura.

La legge professionale aveva ben altro scopo: prevedeva che i Consigli degli Ordini Circondariali fossero espressione di un netto taglio con il passato, imponendo ai consiglieri uscenti di non potersi immediatamente ricandidare, dopo lo svolgimento di due mandati. Con l’interpretazione del Consiglio Nazionale Forense, che assegna a questa norma valore solo per il futuro, consentendo agli uscenti, anche se plurimandatari, di ricandidarsi, con il superamento illegittimo del limite dei 2/3 dei consiglieri eleggibili dall’elettore e con l’interpretazione totalitaria del principio per cui risultano eletti gli avvocati che riportano più voti (art. 28 n. 5 L. 247/12), senza che tale disposizione venga letta in modo costituzionalmente orientato, ovvero prevedendo quozienti di lista nelle competizioni elettorali tra avvocati, la vecchia guardia mira ad impedire che il nuovo possa giocare qualsiasi ruolo nelle battaglie che attendono gli avvocati italiani nel prossimo futuro. Si tratta di una situazione inaccettabile, che integra una violazione sostanziale dello spirito della riforma professionale.

La politica nazionale non può disinteressarsi del problema. I giovani avvocati italiani devono poter concorrere al cambiamento delle proprie classi dirigenti, per costruire una giustizia finalmente diversa, che si svolga anche fuori dal processo e restituisca al paese il valore più importante che un sistema giudiziario deve possedere, perché sia legittimo: la fiducia dei cittadini nella sua efficacia concreta.

Senza rinnovamento, senza dialettica e pluralismo, senza che una nuova visione del ruolo dell’avvocato faccia breccia nella nostra categoria, il paese perderà una storica occasione per costruire insieme un altro pezzo di riforme possibili.

E’ per questo che gli avvocati liberi si stanno battendo contro il “sovietichellum”, ed è per questo che chiediamo alla politica ed alla società italiana di sostenerci in questa battaglia di libertà.

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