BIG DATA: DAL PRODUTTORE ALL’APPROFITTATORE.

10 Agosto, 2018 | Autore : |

I meccanismi che determinano il profitto all’interno dell’economia digitale sono palesemente ingiusti. Il diritto deve regolare la realtà, non subirla ed il profitto generato dai big data è una di quelle realtà che va normate, mettendo la giustizia ed i valori della collettività al centro dello scenario, opponendosi alla forza del capitale e del controllo della tecnologia. I dati prodotti ogni giorno dalla nostra attività vitale, dai siti internet che visitiamo, dalle cartelle cliniche, dagli interventi chirurgici di avanguardia che fanno letteratura medica, vedono noi tutti come produttori di un bene. I profitti derivanti da quel bene ci sono però sottratti alla radice, perché non esiste una legge che consenta al cittadino fruitore del web di riottenere parte della ricchezza prodotta attraverso la catalogazione e la commercializzazione dei dati che riguardano la sua attività. Questa problematica, apparentemente distante dai problemi etici ed economici della società futura, è in realtà di strettissima attualità. La scomparsa del lavoro non è una chimera, ma l’approdo a mio parere scontato di processi economici e tecnologici che non promettono nulla di buono. Non mi unisco affatto a quell’ottimismo di maniera che si fa beffe dei dati che continuiamo a raccogliere, che spiegano benissimo il fenomeno della stagnazione lavorativa, dei poveri occupati, della disoccupazione giovanile di massa e delle nuove forme di schiavitù legalizzate. Non sono ottimista, ma al contrario, ciò che vedo racconta chiaramente quello che avverrà.

La desertificazione demografica delle aree rurali e periferiche, la concentrazione della popolazione mondiale nelle grandi megalopoli, genererà gravissimi problemi di gestione dei flussi migratori, uniti a forti squilibri nel mercato del lavoro. Evitare lo spopolamento e l’abbandono di vaste aree del pianeta, garantendo un’adeguata e proficua umanizzazione dei contesti meno appetibili, sarà compito fondamentale di una politica di bilanciamento che non può più essere affidata al fango del Dio Mercato. Le distorsioni del capitalismo cognitivo stanno producendo nuove e più ciniche forme di disuguaglianza, che sarà sempre più difficile estirpare, se non si agirà sui fondamenti economici della società immateriale. Il libero accesso ai dati, la difesa di un utilizzo privilegiato da parte delle grandi forze capitalizzate ed automatizzate, la diffusione di reti a misura d’uomo, capaci di generare profitto mediante il reinventarsi di un’economia micro, assistita dal pubblico e sottratta alla dittatura del gigantismo postmoderno, sono elementi imprescindibili per poter continuare  coltivare una speranza di orizzontalità dei rapporti sociali.

 

L’ottimismo di maniera non è meno pericoloso del catastrofismo aprioristico. Il mercato, questa entità tanto mitizzata, mostra ormai le mille e mille crepe legate alla sua incapacità di generare ricchezza diffusa, benessere, giustizia sociale. La scomparsa del mostro totalitario comunista è ormai troppo risalente nel tempo perché la politica mondiale non si interroghi seriamente sull’efficienza e sulla sostenibilità di un modello di sviluppo avido, predatorio, devastante per l’ambiente e per il futuro, che ha commercializzato le persone, che sempre più spesso vede la mortificazione dei diritti individuali, la stratificazione delle conoscenze e delle possibilità, la palese iniquità delle condizioni di vita di miliardi di persone, nullatenenti o quasi, a fronte di poche migliaia di individui, liberi di giocare a proprio piacimento con i destini del mondo.

Nel fango del Dio Mercato non c’è più posto per i falsi miti del globalismo sfrenato. Il mercato, la sua autoregolamentazione, la sua presunta capacità di selezionare il bene, il giusto e l’equo, sono favole a cui non crede più nessuno. Siamo in presenza di una chiara assenza di quell’anima nobile, intrinsecamente progressiva, che troppi padroni hanno instillato nelle menti dei prolet, in una riedizione, niente affatto corretta, bensì forse ancor più cruda, dei paesaggi sociali immaginati dal George Orwell nel 1948.

 

Quanti tra noi, che pure abbiamo creduto o in parte crediamo a questo mantra, sapremmo  oggi giustificare il mercato? Riflettiamoci. Non è forse vero che questo totem onnipresente nelle nostre vite, è costantemente evocato, idolatrato, vituperato, senza che la gran parte delle persone che lo nominano ne abbiamo una pallida conoscenza, sta generando ingiustizie ed infelicità, non meno dei modelli totalitari che abbiamo giustamente combattuto ai tempi del muro di Berlino?

Una multinazionale dell’abbigliamento, che monopolizza il commercio di articoli di vestiario sportivo, producendo la gran parte dei beni che vende in paesi sottosviluppati, in cui impiega minorenni, sottopagati, schiavizzati, costretti a turni di lavoro massacranti e tenuti privi di alcuna tutela sindacale. Se qualcuno tra noi ipotizzasse che questo è mercato, sarebbe convinto della sua anima buona?

La diffusione nei giorni scorsi dei primi dati forniti dall’istituto SVIMEZ, legati alla condizione del sud Italia, ha riproposto, seppure per un breve attimo, la discussione sulla scomparsa del lavoro e del reddito, che sempre più sembra favorire una desertificazione generazionale delle regioni del nostro mezzogiorno. In particolare, alla stagnazione del numero di lavoratori e all’emigrazione massiccia di giovani italiani in cerca di un futuro migliore, le osservazioni balzate all’attenzione della stampa hanno riguardato il fenomeno dei cosiddetti “lavoratori poveri”. In pratica stiamo assistendo ad una progressiva erosione dei redditi e dei diritti dei lavoratori, impiegati in attività spesso usuranti, poco qualificate, con scarsissime prospettive di progressione sociale e reddituale, ed un’aspettativa di sostenibilità economica, per quanto riguarda l’età della pensione, che a detta di tutti è assai negativa. Anche questo è mercato? L’anima candida del nostro Signore Mercato vuole tutto questo, magari in ossequio ad un divino e provvidenziale disegno di riscatto ultraterreno?

In gran parte del mondo, ormai dominato in lungo e in largo dal mercato, il risultato di questa signoria è un’allocazione delle risorse che ricalca la celeberrima società feudale, mirabilmente descritta dal grande Marc Bloch. Anche i contadini dei bei tempi antichi andavano al mercato. Non cerano le transazioni in tempo reale, l’ambiente era certo più rustico, ma si scambiavano merci e servizi in cambio di moneta sonante, proprio come ora.

A quei tempi c’erano pochissimi ricchi, che possedevano la gran parte di tutto ciò che aveva valore economico e che dovevano fare poco o niente per mantenere intatta, o addirittura aumentare, la propria smodata ricchezza. Al contrario, c’era una moltitudine di persone che erano nullatenenti, o quasi, che non potevano aspirare ad una vita piena e libera, si moriva spesso, si faticava tantissimo, non esistevano tutele e i diritti, quando c’erano, erano poco più che parole scritte sulla carta. Incredibile constatare come possa cambiare tanto, senza che cambi nulla, non trovate anche voi?

 

 

Occorre avere il coraggio di cambiare. Occorre rendere i cittadini padroni dei fattori che producono la nuova ricchezza. I big data sono uno dei principali fattori in questione e i cittadini devono avere la proprietà e trarre utili da questi dati.

 

Avv. Salvatore Lucignano

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