RIFLESSIONE POLITICA SUI RECENTI ESITI DELL’ESAME PER L’ACCESSO ALLA PROFESSIONE FORENSE: LA POSIZIONE DI NAD

3 Settembre, 2020 | Autore : |

Nelle ultime ore è divampato, come un incendio estivo, il dibattito sugli esiti dell’esame per l’accesso alla professione forense, in particolare della prova scritta sostenuta nel dicembre.

Il dato nazionale vede superato il vaglio dello scritto dal 44,67% dei candidati. La sede con la percentuale più alta di promossi risulta Torino con il 60,66%, mentre la sede di esame con la valutazione più severa è Caltanissetta con nemmeno il 25% di candidati idonei

Spicca il dato partenopeo con solo il 30% dei candidati ammessi all’orale.

Questa la tabella riassuntiva tratta da www.altalex.com.

I numeri, come sempre accade, nulla dicono di concreto se non letti nel contesto di riferimento e si prestano ad interpretazioni/reazioni disparate prive di costrutto. Il troppo o il troppo poco, senza riferimento ad un dato ritenuto giusto, non hanno senso.

Le esternazioni socialiche dei Colleghi narrano di una reazione di pancia manichea che vede da un lato gli scandalizzati dall’esito e dall’altro gli scandalizzati dalla reazione all’esito stesso. Da un lato coloro che perorano ricorsi amministrativi avverso le presunte correzioni sospette, dall’altro i cantori di una pochezza ontologica delle nuove leve dell’avvocatura. In nessun caso si analizza e critica una modalità di accesso anacronistica e lontana dai bisogni e dagli interessi della Classe e di coloro che vogliono intraprendere la coraggiosa via della professione forense.

Partiamo dall’ovvio. L’esame è teso ad accertare se il candidato all’abilitazione abbia maturato le competenze minime per l’esercizio della professione forense.

Da questo presupposto è necessario partire rifuggendo suggestioni a-scientifiche basate su convinzioni personali o tentazioni demagogiche.

Un candidato ritenuto non abile certifica il fallimento del proprio percorso formativo.

Tale percorso include: 1) la preparazione e l’impegno del candidato; 2) la funzione del dominus che accompagna il candidato nella formazione; 3). la funzione degli Ordini nella sorveglianza ad essi deputata.

A valle dei fattori sopra indicati v’è la idoneità dell’esame d’accesso, così come organizzato, nel verificare la sufficienza degli stessi.

Analizziamoli partitamente.

1) Non è un mistero eleusino che il sistema scolastico/universitario nazionale abbia subito, dal dopoguerra ad oggi, una lenta e costante decandenza in un processo perverso che, negli ultimi cinque lustri, ha subito una drammatica accelerazione.

Il valore reale dei titoli (dalle licenze elementari e media sino alle lauree) si è diluito in maniera inversamente proporzionale al conseguimento degli stessi. La laurea, che sino all’ultimo decennio del secolo scorso poteva essere considerata un plusvalore nella formazione dei singoli, oggi non riesce a certificare la preparazione del singolo.

Alle Università massificate accedono indiscriminatamente masse di studenti con enormi lacune culturali e dalle Università escono, col titolo di dottore, soggetti assolutamente inidonei alla collocazione nel mercato del lavoro e delle professioni.

Il titolo universitario è così svilito che, oramai, non solo non garantisce l’accesso al lavoro, ma spesso vede i laureati collocati in funzioni/mansioni per le quali il titolo è assolutamente inutile. 

Gramsci teorizzava l’innalzamento delle masse alla Cultura, ma una perversa logica formativa ha portato la Cultura ad abbassarsi al livello delle masse.

2) Se quanto sopra corrisponde al vero, ed i dati storici lo confermano, può affermarsi che alla porta della pratica forense arrivano moltissimi aspiranti assolutamente non idonei culturalmente all’arduo percorso professionale. Giocoforza l’Avvocatura, se avesse amor proprio e coscienza di Classe e funzione, da tempo si sarebbe dovuta attrezzare per operare una selezione a monte degli aspiranti Avvocati. Tale processo di selezione, in una professione libera, dovrebbe essere svolta dai domini, filtro essenziale ed imprescindibile.

Il dominus dovrebbe avere come stella polare del proprio rapporto col praticante l’obbligo deontologico alla formazione avendo la forza, l’intelligenza, il coraggio e la sincerità di sconsigliare il percorso ai soggetti evidentemente inidonei.

Purtroppo, nella cruda realtà, moltissimi praticanti sono indotti a pensare di poter “fare” gli Avvocati peregrinando da una cancelleria all’altra, facendo le file agli Uffici, passando il tempo davanti alla fotocopiatrice o al pc per le attività riferite al processo telematico. Molto spesso tutto ciò avviene unicamente col compenso costituito dalla possibilità di avere il numero di presenze in udienza utili alla chiusura della pratica.

Un sistema che non imputi responsabilità deontologica vera in capo al dominus(e ciò può avvenire solamente attraverso la previsione di strumenti sanzionatori) davanti ad un candidato assolutamente insufficiente, è un sistema che tradisce se stesso e si traduce in una fabbrica di illusioni per i malcapitati che vi ci incorrono.

Ad oggi, e concludendo sul punto, prima di accettare la responsabilità di formare un praticante un dominus dovrebbe domandarsi se, per tipo di attività svolta e per quantità/qualità di contenzioso, possa davvero formare un futuro Collega.

3) Non sono esenti da responsabilità esiziali gli Ordini che riducono la propria funzione di vigilanza a mere formalità. Firmare e timbrare un libretto della pratica è attività che, se ridotta alla forma è criminale. L’accesso indiscriminato all’esame di soggetti incapaci a sostenerlo danneggia, in primis, coloro che quell’esame lo meritano a compimento del percorso formativo. Purtroppo gli Ordini, quali soggetti di prossimità della c.d. politica forense, operano in regime di autotutela rispetto al dato elettorale e con nessun riguardo a quello sostanziale. Il praticante è un voto in pectore che non può essere smarrito in un processo di vigilanza severo.

4) Il fallimento delle attività elencate ai punti precedenti si traduce in un esame mal pensato, anacronistico e profondamente ingiusto. Basti analizzare un dato su tutti che evidenzia quanto la mancanza di filtri preventivi si traduca in un danno per tutti i candidati. Dato il numero degli elaborati scritti in rapporto con il numero degli esaminatori, ad ogni candidato sono garantiti circa due minuti di attenzione da parte del giudicante. In centottanta secondi, quindi, il correttore deve poter formulare il proprio giudizio di congruità su di uno scritto relativo a complesse questioni giuridiche. È palmare come tale tempo sia insufficiente e, non potendosi operare sulla complessità del sistema di norme e della giurisprudenza allo stesso connessa, l’unico fattore sul quale può operarsi, a sistema invariato, è il numero degli elaborati da correggere.

Davanti ad una siffatta situazione le soluzioni offerte sono le più disparate, dal numero chiuso all’università al limite numerico di accesso alla professione, al “tutti dentro” con la speranza neoliberista che la mano invisibile del mercato adempia al suo ruolo. Evidenti non soluzioni se considerate in maniera non coordinata. A ciò si aggiunga il vero scandalo dell’abilitazione all’estero, vera e propria selezione in base al censo e non al merito.

Al di là di ogni di ogni suggestione demagogica, nell’uno o nell’altro senso, va profondamente ripensato il sistema di accesso alla professione forense con riforme strutturali che partano dall’Università e che implementino il sistemi di filtro di accesso alla professione. In tal senso è necessario che sia l’Avvocatura a pretendere di giocare un ruolo centrale nella selezione dei propri componenti rendendosi protagonista, all’esito del primo filtro educativo e formativo, delle dinamiche relative all’accesso nelle proprie fila.

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