LE PAROLE DEL GOVERNO E QUELLE DEL CONSENSO

13 Marzo, 2018 | Autore : |

Le elezioni politiche del 4 marzo sono state un fatto assai commentato dagli avvocati italiani. Nonostante spinte antipolitiche, che vorrebbero gli avvocati distanti dal dibattito civile, questo è un segno di partecipazione importante e positivo.  Uno degli elementi che ha tenuto banco, nelle analisi post-voto, è stata la qualità del consenso. Si vince perché si è bravi, o perché quelli che assegnano la vittoria sono cattivi? E’ una sorta di riproposizione dei paradossi di Zenone, perché non c’è soluzione. In particolare, vince chi fa propaganda o chi sa farla?

Per uscire dal paradosso e dall’opinabile occorrono basi concettuali solide, che spesso sfuggono alle indagini, anche di chi sa fare politica e la fa ad alti livelli. Occorrono cioè dei postulati, dei teoremi, che permettano di agire in modo orientato, senza perdersi nelle paludi dell’opinabile e del paradossale. Pertanto, proviamoci:

 

  1. La base di ogni governo democratico è il consenso. Senza preoccuparsi dell’ottenimento del consenso è insensato pensare a come governare. 

 

Quanto affermato sembrerebbe quasi scontato, ma non è così. Sono in molti a non capire, a non accettare, a non rendersi conto che il consenso è l’elemento centrale di ogni sistema democratico ed è pura questione numerica, che sfugge alla qualità, etica e politica. In altri termini, andando a fondo della questione, la natura preponderante del consenso scava una differenza netta tra due livelli di politica: quella del consenso e quella del fare.

 

  1. politica del consenso 
  2. politica del fare

 

 

La distanza tra queste due politiche è ormai diventata un elemento di costume, o meglio, di malcostume, assai diffuso nella nostra società. L’avvocatura italiana è vittima di questa problematica, non diversamente da altri gruppi sociali, più estesi. Il dire che genera consenso raramente riesce a trovare riscontro nelle possibilità del fare, sia per logiche compromissorie necessarie, che involgono il rapporto tra realtà ed idealità, sia per l’inadeguatezza dei sistemi di governo, che non consentono di trasferire il peso e gli strumenti per un agire non compromissorio, all’interno dei luoghi in cui si assumono le decisioni.

 

 

In generale, la società contemporanea ha sviluppato una serie di istituzioni decisionali non democratiche, che si affiancano a quelle di natura parlamentare e rappresentativa, spesso potendosi muovere con logiche del tutto slegate dalla ricerca del consenso, ma con effetti assai importanti sulla politica e sul consenso dato dai popoli alla politica. Anche questo fattore, ovvero la presenza di istituzioni che incidono profondamente sulla realtà economica e sociale dei popoli, senza essere legate ad essi da un rapporto di fiducia, contribuisce a generare quella che ho definito come la democrazia della distanza, ovvero quel fenomeno per cui il consenso non è più in grado di tradursi in azione di governo e le rappresentanze possono contare su una serie di filtri e di barriere che li separano dai rappresentati.

 

 

Gruppi sociali di riferimento, zoccoli duri ed altri fossili 

 

Il risultato più evidente di queste trasformazioni della politica contemporanea è la rapidità di spostamento del consenso. L’assenza di un’ideologia politica forte, il rifiuto della politica come pensiero forte, sposta gli effetti del consenso verso forme di pensiero debole, in linea con le esigenze culturali di popoli, classi o gruppi sociali che rifiutano la complessità e ricercano semplicità. L’elettore contemporaneo, in quasi tutti i contesti, non possiede gli strumenti per capire o essere artefice del proprio destino ed allo stesso tempo non vuole avvicinarsi a percorsi formativi, legati al civismo ed all’esaltazione della buona politica, che gli consentano di appropriarsi di tali strumenti. L’elettore chiede utilità, promesse, non vuole tecnicismi, né ammissioni di verità. I ragionamenti devono essere semplici, o meglio ancora, semplicistici, devono tener conto di un analfabetismo funzionale che impedisce ai più di applicarsi su un testo di oltre 300 caratteri, e che ormai bandisce il libro come contenitore del sapere.

La gran parte delle persone si forma opinioni e conoscenze basandosi su stilemi e pattern visivi, immediati. Il rapporto tra pensiero politico e idealità non riesce a sottrarsi alla teoria dei veri. Il verosimile è reale, il reale non ha alcuna importanza. La scomparsa delle ideologie si accompagna a quella dei fattiné è possibile costruire cultura politica di qualità, senza fare a pugni con la ricerca di velleità. Il pensiero debole porta al consenso labile. Il conservatorismo e la paura di perdere ciò che si ha forgiano le aspettative e gli orientamenti di classi sempre più lontane da una dimensione del pensiero collettiva. Le masse diventano sempre più spersonalizzate, in balia di pulsioni ingovernabili. E’ il disfacimento della politica, la sua trasformazione in qualcosa di diverso, l’arretramento e la retrocessione alla categoria del proclama, dello slogan, del dire perenne che sottomette la fatica del fare. 

 

 

Istituzionalizzazione e sindrome di Stoccolma 

 

L’amore per il carnefice, per il potere, per l’autorità. L’incapacità  di essere radicali, rivoltosi, innovativi. Il rifiuto del rischio, della libertà, della sfida. Conseguenze inevitabili di premesse friabili. 

 

Avv. Salvatore Lucignano

 

 

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