La situazione di Dory

25 Maggio, 2020 | Autore : |

Dell’Avvocato Angelo Laratta – Nuova Avvocatura Democratica Sezione di Milano

Entrati nella c.d. “Fase 2” di risposta del sistema Italia alla pandemia da Covid-19, la Giustizia dimostra, una volta di più, la più totale incapacità di adattamento ad una situazione emergenziale.

La risposta organizzativa fornita dal Ministero della Giustizia è stata, eufemisticamente, superficiale.

Il processo da remoto non è idea nuova, ma la sua applicazione estensiva è un’idea coraggiosa, che necessita di una calibrazione attenta e responsabile della tecnologia utilizzata, della fissazione di limiti precisi e invalicabili, insomma di uno studio approfondito da parte del legislatore.

Tuttavia, come accade sempre più spesso, alla mancanza di coraggio e capacità di attrarre consenso e fiducia da parte della classe dirigente, sopperisce la paura e necessità dell’emergenza di turno.

Di fronte al rischio di contagio si è realizzato in un mese ciò che da anni non viene nemmeno seriamente preso in considerazione come dibattito pubblico: rendere l’aula penale una piattaforma virtuale sganciata sempre più dall’esperienza sensibile.

La precedente emergenza

L’idea del processo da remoto è nata da un’emergenza, quella connessa all’escalation di violenza che le famiglie della Mafia avevano provocato all’inizio degli anni ’90.

La tutela dell’incolumità di determinati soggetti, a partire dai collaboratori di giustizia e finanche agli operatori del diritto tutti, giudici compresi, è stata la ragione necessaria e sufficiente per modificare in modo sensibile l’esperienza del processo per determinati tipi di reato, che appunto comportavano questo grande rischio.

Un’emergenza, quella della violenza mafiosa, che si riteneva, almeno ufficialmente, di poter domare nel giro di qualche anno, per poi elidere le norme sul processo da remoto, tornando ad una trattazione fisica anche per quei reati.

La storia andò diversamente: dopo le proroghe al termine di durata della normativa, una legge del 2002 semplicemente eliminò il termine suddetto, consacrando definitivamente la nascita di una nuova tipologia di processo, non più interamente fisico, ma in parte virtuale.

Sia la partecipazione dell’imputato da remoto, che l’esame dei testi indicati dall’art. 147-bis disp. att. c.p.p. sono stati oggetto di critiche da più parti, principalmente dell’avvocatura, che lamentò una lesione del diritto di difesa e del diritto dell’imputato di partecipare al proprio procedimento.

Via monitor e telefono, si disse, la partecipazione è sostanzialmente monca, rispetto all’immediatezza della presenza dal vivo dell’imputato. La problematica, in ogni caso, è a mio parere secondaria; non si discute l’importanza di garantire all’imputato la possibilità di partecipare al proprio processo, e allo stesso tempo l’immediatezza delle comunicazioni con il proprio difensore è altresì molto importante, e sarebbe un rischio sottovalutarla.

Tuttavia, il maggiore dei rischi per il processo è la compromissione delle regole del contraddittorio nella formazione della prova, si converrà, visto che, se una caratteristica imprescindibile del processo accusatorio esiste, questa è proprio il contraddittorio nella formazione della prova.

Eppure questa problematica, enorme, ha trovato una nuova fase critica solo in virtù della nuova emergenza, quella sanitaria, portata dal Covid.

L’esame ed il controesame, momenti cardine del processo penale, non hanno potuto giovare della stessa analisi dettagliata rischio-beneficio del diritto di partecipazione dell’imputato, e ciò non può essere spiegato unicamente attraverso analogie con altre attività, come ha fatto Pierpaolo Rivello nel suo bellissimo articolo “La disciplina della partecipazione a distanza al al procedimento penale alla luce delle modifiche apportate dalla riforma Orlando”, ove viene paragonato l’esame di un teste alle lezioni universitarie online.

La nuova emergenza, e la necessità di trattare i processi con mezzi telematici, non solo nelle fasi ultra-dibattimentali, ma anche nel momento dell’esame e del controesame, spinge a interrogarsi sui limiti e sulle possibilità della tecnica sempre più spinta nel processo, e soprattutto sull’onestà di un Legislatore che dovrà garantire che, se un’introduzione della tecnologia sarà fatta, questa non potrà essere sic et simpliciter la stabilizzazione di una normativa emergenziale.

Le critiche ragionevoli al sistema da remoto

Per quanto detto finora, riguardo le novità della normativa Covid, ci si concentrerà sulla fase dibattimentale, in quanto principale problema del processo penale è, e sempre sarà, la tutela del dibattimento come luogo di formazione della prova. In un modo o nell’altro, tutte le problematiche relative alle garanzie difensive devono confrontarsi con il momento culmine del processo che, evidentemente, non è la sentenza, ma è la fase probatoria, su cui tutto si fonda e cui tutto nel processo tende.

La tutela della salute è certamente motivo sufficiente per avere una compromissione, piccola o grande che sia, del diritto di difesa, o comunque della possibilità delle parti di potersi avvalere appieno delle tecniche retoriche, così come anche delle nuances che ogni operatore del diritto impara a riconoscere e sfruttare, specialmente nei due momenti cardine, l’esame/controesame e la requisitoria/arringa.

Una visione virtuale, bidimensionale, limitata nella definizione dell’immagine e nel difetto della stessa nell’arrivare da un luogo all’altro in maniera perfetta, anche per motivi legati ai limiti delle connessioni, certamente non permettono di avere la stessa resa in sede di esame.

La perdita dei famosi tratti “prosodici”, quelli che permetterebbero attraverso l’analisi di stabilire la maggiore o minore attendibilità della deposizione dal fremito di una palpebra alla postura del corpo; l’inevitabile assenza di un rapporto dialogico naturale fra interrogante e interrogato, causato ad esempio dalla necessità di evitare sovrapposizioni linguistiche che, se comprensibili e utili per non far andare fuori tema il teste, sono da evitare nel “telesame” (come felicemente definito da G.P. Voena) per non finire in un rumore incomprensibile per il giudice; l’assenza di una fisicità del processo che possa essere percepita dal teste e che può portare le parti a giovarsi dell’aura di sacralità che ogni aula di Tribunale possiede, e che non è solo casuale ma è scientemente cercata e ponderata dal Legislatore, che ha “pensato” in un certo modo anche la disposizione di tutte le parti nello spazio; la limitazione, più o meno forte, della possibilità attoriale dell’operatore, momento che merita una piccola digressione: tutti gli operatori del diritto, anche lo stesso giudice, seppure in maniera minore, creano un personaggio che possa servire per raggiungere il miglior risultato possibile. Il Pubblico Ministero che si protende con aggressività, ovvero alza il tono della voce, usa uno sguardo severo, o ancora si sbraccia con scatti improvvisi verso un teste che deve, nel suo interesse, essere in una certa misura intimorito per rivelare ciò che serve alla tesi, è un attore. Così l’avvocato che, verso una persona offesa che non vorrebbe mai facilitargli il lavoro di difendere l’imputato, si pone con estrema educazione, con voce melliflua domanda, sorride, ammalia solo per poter far sentire a proprio agio quella persona, in attesa di una contraddizione da puntualizzare e, se del caso, rimarcare con toni improvvisamente più severi e decisi, è un attore.

Ebbene, chiunque abbia fatto pratica in un Tribunale ha visto questa recitazione, ormai sa che l’aula è un teatro e che il pubblico è il giudice.

Il telesame, per quanto possa essere perfetto, resterà sempre e comunque un succedaneo della vera esperienza del processo, da utilizzare con estrema attenzione e ponderazione, secondo i dettami di cui all’art. 111 c. 5 Cost., quindi dietro il consenso dell’imputato, impossibilità ovvero condotta illecita. Al riguardo Marcello Daniele (“La sagomatura dell’esame a distanza nel perimetro del contraddittorio” in “Le erosioni silenziose del contraddittorio” ) afferma, dando per scontate queste problematiche, che il rischio di un uso estensivo legittimato da velleità efficientistiche del Legislatore deve essere escluso categoricamente, in quanto lesivo dell’art. 111 Cost.

Inutile affermare, sulla scorta di quanto scritto da Pierpaolo Rivello nel suo scritto sopra citato, che le critiche all’esame in video conferenza siano apodittiche, al contrario, è la pratica del processo a portare ad una prova empirica dell’importanza di questi metodi, di queste tecniche, a meno che non si voglia sostenere che la capacità oratoria non ha a che fare con una certa capacità attoriale ed un certo “setting” della medesima, il che è contraddetto da tutte le opere più importanti di arte oratoria, da Aristotele all’Anonimo del Sublime, che hanno tracciato le regole per la buona retorica, indicando anche la funzione di recitazione fra le caratteristiche imprescindibili.

Le critiche irragionevoli

Da quanto fin qui detto si può ben comprendere che il problema del dibattimento virtuale risiede nella mancanza di fisicità del sistema.

Il terreno è molto accidentato, in quanto l’argomento confonde, a mio parere, il piano della partecipazione dell’imputato al processo, con quello della diade esame/controesame.

Il primo momento è stato analizzato dalla Corte Costituzionale con la sentenza 342/1999, ancora nel periodo “temporaneo” della normativa, che ha stabilito l’assenza di alcuna lesione del diritto di difesa o di partecipazione al processo da parte dell’imputato.

Sebbene giudizi critici possono essere mossi a questa impostazione, si può ritenere che il bilanciamento degli interessi in gioco possa giustificare una, effettiva e innegabile, difficoltà e macchinosità della “convivenza processuale” fra difensore, imputato e, spesso, praticante che deve magari stare con l’uno ovvero con l’altro.

Il problema dell’esame non è stato affrontato nelle medesime sedi, ma il discorso non ha mai lasciato l’ambito della speculazione scientifica.

Di conseguenza alcune critiche possono essere facilmente smontate come eccessivamente severe nei confronti della tecnologia, sempre tenendo bene a mente l’uso quale estrema ratio della stessa.

La prima irragionevolezza deriva dal concetto stesso di contraddittorio e dai corollari (non tipizzati) dell’oralità e dell’immediatezza.

Il contraddittorio è quel sistema epistemologico, fondato sulla dialettica, che consente alle parti di “contraddire” la tesi avversaria mediante la presentazione di argomenti, a carico e a discarico rispettivamente. Tale criterio vige nell’intero processo italiano, sia esso civile o penale.

Nel penale, tuttavia, il contraddittorio è specificato ulteriormente quale canone per la formazione della prova. Qualsiasi teste portato da una parte, deve poter essere interrogato dall’altra in condizioni di parità, secondo le regole della diade esame/controesame.

Dall’analisi degli articoli del codice al riguardo discendono senza dubbio i due corollari di cui si parlava.

L’oralità, opposta alla cartolarità, è prevista dal fatto che il codice non fa riferimento alcuno a documenti contenenti le domande da presentare, diversamente dal processo civile che, all’art 244 c.p.c. prevede espressamente l’indicazione dei fatti sui quali il teste deve essere interrogato. Il fatto che, materialmente, anche nel processo civile il giudice (e non le parti si noti) debba usare la viva voce per fare le domande al teste, non ha alcun rilievo rispetto alla funzione dell’oralità nel processo penale.

Il corollario dell’immediatezza è scritto espressamente in diverse disposizioni del codice di procedura penale: gli artt. 478, 491, 504 c.p.p. solo per citare pochi esempi, usano espressamente la parola “immediatamente”. Il codice si sforza di rendere il dibattimento quanto più possibile concentrato nel tempo ma, soprattutto, quanto meno “mediato” possibile. Mediato da cosa? Evidentemente dal tempo, ma anche soprattutto da qualsiasi altro mezzo che si inserisca tra la questione sorta e la decisione del giudice, il quale deve, appunto, decidere sul momento, applicando le regole del processo senza formalità.

In un altro senso, la percezione del narrato del testa da parte del giudice non deve essere mediata, quindi non può prescindere da un ascolto dalla viva voce dello stesso.

Si può capire facilmente che, da un punto di vista formale, ed esclusa la pur giusta critica di asetticità e depotenziamento dell’efficacia retorica delle parti per quanto detto precedentemente, nessuna lesione del diritto di difesa può, a priori, essere individuata nell’utilizzo dello strumento telematico per l’esame/controesame.

Certamente non si può confrontare, a ben vedere, questa procedura dibattimentale, rispetto a quanto stabilito dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la famosa Sentenza 41736/2019, la quale ha portato ad una sostanziale indifferenza della percezione delle prove fra giudici differenti. Un’applicazione del genere, per quanto disciplinata dalla Sentenza interpretativa citata, rappresenta quanto di più lontano esista dai due corollari cui il mondo dell’avvocatura penale disperatamente cerca di aggrapparsi.

Gli attacchi al contraddittorio, come conosciuto dal Legislatore del 1988, sono arrivati nel corso del tempo in assenza di una risposta compatta e organica da parte degli avvocati, che sempre più avrebbero bisogno di una voce autorevole e unitaria, di una politica che guardi ai veri interessi della professione, ma che dilaniati dalle differenze sempre più evidenti nel reddito di pochi rispetto ai tanti, e dall’imbarbarimento della classe dominata dalla legge dell’homo homini lupus , sono impotenti di fronte alle derive demagogiche, si veda la protesta inutile sulla prescrizione, e alle istanze inquisitorie, passate spesso e volentieri sotto traccia.

Onestà intellettuale e politica

Al di là di giudizi sprezzanti, ragionevoli e non, che possono essere mossi alla tecnologia telematica nel processo penale, è indubbio che, a seguito dell’emergenza Covid, ed in assenza di una volontà, ma anche capacità e forse possibilità, di tutte le istituzioni coinvolte, di rendere sicure le aule di udienza per l’istruzione ordinaria delle cause, gli animi si predisporranno fortemente verso un utilizzo di questi strumenti.

Ciò che non può mancare, e su cui gli avvocati hanno il dovere morale di vigilare, è l’onesta intellettuale della politica nel perseguire gli obiettivi che si pone con chiarezza e senza “mezzucci”.

Se il movente dell’estensione del processo da remoto è stata la lotta al contagio, e se il suo uso è stato in ogni caso previsto come “residuale” rispetto al preferibile rinvio dei processi non urgenti, non si può non vedere come, in determinati casi, l’uso dello strumento è assolutamente necessario: si pensi al caso di un imputato, ma in realtà il difensore di lui, sottoposto a misura cautelare che dovrebbe scegliere se procedere all’udienza dibattimentale da remoto ovvero rinviare a molti mesi il processo, rimanendo ancora in balia di una misura restrittiva della libertà.

Il passo successivo, che è stato già ben visto dalla dottrina (Maurizio Vecchio “Il processo penale nel dopo emergenza: riflessioni dopo la conversione in legge del decreto cura italia”), sarà quello di estendere l’uso del processo da remoto per fini diversi dalla tutela della salute, spostando il discorso sulla famigerata “ragionevole durata”.

L’efficienza del sistema potrebbe giovarsi della tecnologia, nessuno sembra avere dubbi al riguardo, il problema è stabilire in quali ambiti è possibile utilizzarla.

Le prime proposte si sono concentrate, e sono in una certa misura condivisibili, sulle udienze c.d. filtro, ovvero anche su quelle udienze “per repliche” che in realtà servono unicamente a consentire al giudice di effettuare la Camera di Consiglio senza sacrificare le decine di udienze che ha a ruolo.

Personalmente ritengo che, anche laddove vi siano dei vantaggi in questi strumenti, non è affatto detto che questi siano relativi alla ragionevole durata del processo. Si pensi, ad esempio, alle udienze filtro: in tal caso, tutti gli avvocati avrebbero la possibilità di collegarsi, all’orario stabilito, e di ascoltare il rinvio dell’udienza comodamente dal proprio studio, ma ciò non significa che il numero dei fascicoli verrebbe a ridursi, ovvero che il tempo impiegato per ogni singolo fascicolo sarebbe inferiore. Nel momento in cui il giudice avrà sul ruolo trenta udienze da trattare nelle quattro ore disponibili fino a pranzo, qualsiasi strumento utilizzato, egli avrà esattamente otto minuti per ogni fascicolo.

L’onestà della politica, a mio avviso, deve essere quella di comprendere che il processo da remoto, se indispensabile nell’emergenza, non può diventare automaticamente regola, seppur in ambiti ristretti, in base ad una semplice modifica del motivo per cui questo strumento viene utilizzato.

Alla base deve esserci un discorso critico, che coinvolga tutte le parti portatrici di interessi, ed un esame dei costi/benefici che prescinda da visioni ideologiche le quali non farebbero altro che trasformare il dibattito in un proclama demagogico utile solo per raccattare qualche voto, per qualche mese.

In un tempo di continua amnesia dell’elettorato, lo sforzo della classe degli avvocati dovrebbe essere, una volta di più, di evitare quella triste situazione nella quale si trovava il simpatico, ma fragile, personaggio Dory nel film “Alla ricerca di Nemo”: essere portati alla deriva dalla corrente dimentichi delle lesioni subite, in viaggio ciecamente entro mari perigliosi.

Avvocato Angelo Laratta – Nuova Avvocatura Democratica sezione di Milano

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