AVVOCATURA AFFAMATA, SVILITA E DIVISA

25 Aprile, 2020 | Autore : |

Una crisi che viene da lontano – dell’Avvocato Marco Barbati – Segretario Sezione Nuova Avvocatura Democratica Torre Annunziata

Questa pandemia mondiale, che ha colpito gravemente il nostro magnifico Paese, ha portato alla luce quello che molti immaginavano e/o già sapevano da tempo, ma che ben pochi avevano il coraggio di dire pubblicamente: la profonda e grave crisi reddituale in cui versa gran parte dell’avvocatura italiana. Un dato incontrovertibile, questo, emerso dall’elevatissimo numero di avvocati che hanno espletato domanda d’accesso al reddito da ultima istanza, così come da D.L  n.9/2020 art.16. Infatti, oltre centoventimila avvocati hanno chiesto il famoso bonus di €600,00, al momento un tantum, previsto solo per il mese di Marzo. Sorge spontaneo, allora, chiedersi come sia possibile che per un solo mese di mancato lavoro e di probabili introiti mancanti, un numero così elevato di avvocati abbia denunciato la propria difficoltà economica e che non abbia i mezzi di sostentamento per tirare avanti per un solo mese o due. A questa domanda si può dare risposta soltanto facendo la cronistoria di una serie di provvedimenti che, nel corso del tempo, hanno fortemente eroso l’autonomia e la libertà dell’avvocatura con conseguente ed inevitabile compromissione della tutela dei diritti dei cittadini.  

Orbene, è parere di molti che la nostra crisi professionale sia iniziata con la ben nota Legge “Bersani” n.248/2006, contenete il pacchetto liberalizzazioni delle professioni. In parte è vero, ma, a mio avviso, il vero colpo di grazia alla nostra professione è stato inferto proprio da una nostra collega, l’Avv. Paola Severino, Ministro di Grazia e Giustizia del Governo Monti. Con il D.M n. 140 del 20/07/2012, infatti, sono state riformate al ribasso le tabelle delle competenze professionali e con il D.L. 155/2012 è stata ridisegnata la geografia delle circoscrizioni giudiziarie, con soppressione, spesso illogica, di moltissimi Uffici del Gdp e di tante Sez. Distaccate dei Tribunali,  che ha portato, a fronte di un irrisorio risparmio per le casse dello Stato di circa 30milioni annui, ad un ulteriore frenata della funzione giurisdizionale dello Stato. Di fatti, lo scriteriato accorpamento degli uffici giudiziari invece di migliorare e velocizzare i processi, ne ha solo provocato il rallentamento; situazione, questa, determinata da un caos organizzativo e gestionale generato dalle inadeguatezze strutturali dei Uffici Giudiziari accorpanti, che si sono rivelati insufficienti ad ospitare quelli soppressi,  per carenza numerica sia del personale di cancelleria (molte unità andate in pensione e in pre-pensionamento) e sia degli stessi Giudici che si son visti quintuplicare il loro ruolo.

Senza contare che dette soppressioni e accorpamenti hanno reso più difficoltoso l’accesso alla giustizia da parte del cittadino, spesso obbligato a spostarsi dal proprio territorio e per di più a percorrere diversi chilometri per adire il giudice territorialmente competente e ottenere così la tutela dei propri diritti e interessi legittimi.

Passando, invece, a disquisire della riforma concernente le tabelle professionali, il punto di non ritorno che ha determinato il depauperamento di una buona parte dell’avvocatura, con il conseguente suo lento ecclissamento, si è avuto in una calda estate del 2012, quando il Ministro Severino tagliò, d’imperio, i compensi degli avvocati civilisti, riducendoli del 50% per i procedimenti di cognizione (di basso e medio valore)  e del 90% per le procedure esecutive! Vero che il taglio delle tariffe interessò poco i colleghi penalisti (nettamente minoritari rispetto ai civilisti) che, disponendo di una capacità reddituale di fatto slegata dalle tariffe, si disinteressarono e tacquero; altrettanto silenti, però, rimasero i civilisti nonostante fossero direttamente interessati dalla citata riforma che  falcidiava, in un colpo solo, la loro capacità reddituale. Immaginate se un’ugual riforma avesse toccato, anche con un taglio marginale, gli stipendi degli operai o degli impiegati, oppure, per fare un ulteriore esempio, le tariffe dei tassisti. In centinaia di migliaia con i loro sindacati sarebbero scesi per strada a protestare contro il governo e per la tutela dei loro diritti. Altrettanto avrebbe dovuto fare l’avvocatura: scendere in strada per protestare, per far sentire la propria voce. Al contrario, la nostra categoria è rimasta in religioso silenzio, ivi comprese le sue rappresentanze istituzionali (dai vari CoA al CNF) che non sono stati neppure capaci di indire un’astensione a livello nazionale, che personalmente ritengo un inutile mezzo di protesta, ma che sarebbe stato già qualcosa rispetto al nulla cosmico al quale si è assistito.

Per comprendere meglio gli effetti nefasti della riforma, facciamo due conticini pratici, insomma “terra-terra” nelle nostre tasche: fino a Luglio del 2012 sarebbero bastate due cause, di valore inferiore incardinate innanzi al GdP, per mantenere più che dignitosamente se stessi, la propria famiglia e lo studio professionale con tutti i crismi richiesti. Infatti, per una causa inferiore, nessun Giudice osava liquidarti per competenze professionali una somma inferiore a € 800/900 oltre spese vive, spese forfettarie, iva e cpa. Dunque, considerando anche le spese forfettarie, si arrivava ad un compenso medio di € 1.000,00 circa liquidato in sentenza; tale somma una volta precettata (secondo vecchio tariffario),  si duplicava  e /o si triplicava in caso di pignoramento e quindi per una causa inferiore i compensi variavano tra i 2.000,00 e i 3.000,00 euro. Mentre per le cause fino al € 5000,00, sempre di competenza del GdP, il compenso liquidato in sentenza variava dai 1.700,00 ai 2.800,00 euro circa, sempre oltre a spese e accessori, precetti e pignoramenti; così proporzionalmente, per le cause incardinate innanzi a Tribunali e magistrature superiori, le competenze liquidate variavano dai 4000,00 euro circa a salire, ovviamente, in proporzione al valore della causa. A tutto questo va aggiunto che i contributi minimi di cassa forense ammontavano a circa 1.500,00 euro annui (diminuiti per la metà per i neo iscritti) e non c’erano ulteriori spese quali il premio assicurativo per la polizza di responsabilità professionale e per i corsi di aggiornamento professionale, che attualmente l’avvocato deve sostenere.

Oggi, invece, dopo tre o quattro anni e più di contenzioso, assistiamo a liquidazioni delle competenze professionali in sentenza, secondo attuale tariffa,  di € 300,00 per i giudizi inferiori e di € 1.200,00 per i contenziosi di valore superiore innanzi al Gdp, mentre per i contenzioni incardinati innanzi al Tribunale, le liquidazioni delle competenze professionali,  variano in media dai 1.800,00 ai 4.800,00 euro per le cause di valore entro i ventimila euro, ma le eccezioni al ribasso non mancano ed io stesso mi son visto accogliere un appello ad una sentenza di GdP con liquidazione delle competenze professionali determinate nell’esosa cifra di € 600,00 circa. Dopo tutto ciò, va considerato anche che le competenze professionali  del precetto e del pignoramento si son ridotte al lumicino.  

Dunque, fino a pochi anni fa la professione d’avvocato ti permetteva di vivere bene anche con un numero limitato di contenziosi, perché il lavoro veniva remunerato adeguatamente ed in proporzione non solo alla quantità, ma soprattutto alla qualità del lavoro svolto, a cui veniva infatti riconosciuto un valore intrinseco che prescindeva da quello della causa. Inoltre, c’è da considerare che il contenzioso è sostanzialmente diminuito per diversi motivi. Infatti, l’accesso alla giustizia da parte dei cittadini è stato reso più difficile da diversi fattori, quali: l’aumento vertiginoso delle spese vive, quali contributi unificati e marche da bollo, il cui costo si è quadruplicato nel giro di pochi anni (il C.U minimo per un ricorso al Tar, ammonta a 650,00 euro); la chiusura di moltissimi GdP e Sez. Distac. dei Tribunali; oltre all’introduzione degli istituti della mediazione e della negoziazione assistita che, seppur risultati fallimentari nel raggiungimento del fine per cui erano stati introdotti, hanno comunque ridotto, in una piccola ma rilevante percentuale, il contenzioso giudiziale; il codice delle assicurazioni, ovvero la riforma che ha introdotto la novità del foro dove ha la residenza o il domicilio il terzo pignorato (in deroga alla normativa generale).

Si potrebbe anche obbiettare che noi avvocati siamo in soprannumero, ma voglio sottolineare ancora una volta che la vera crisi economica dell’avvocatura si è avuta con il taglio delle tariffe, altrimenti non si spiegherebbe che è da decenni  che siamo in tanti, forse in troppi, ma che nonostante ciò, esercitavamo con buona soddisfazione professionale ed economica; inoltre negli ultimi tre anni il numero di avvocati e praticanti iscritti agli ordini si è sostanzialmente ridotto.

Dunque, in solo otto anni o poco più, dopo riforme su riforme susseguitesi nel tempo, l’avvocatura è stata affamata, annichilita, depauperata, svilita anche da quell’obbrobrio di legge professionale che ha incatenato la nostra libera professione che, attualmente, oltre ad essere stata impoverita, ritengo meno libera rispetto al passato. In un breve lasso di tempo, è stato determinato un sistema in cui non conta più essere un avvocato, ma conta fare l’avvocato e per fare l’avvocato oggi giorno è necessario avere un contenzioso adeguatamente sufficiente per vivere agiatamente come un tempo, al netto dei tanti e onerosi costi di gestione che ho sopra citato.  Insomma, per dirla in breve, o si hanno tante cause oppure non si resiste nel sistema e ci si indebita per sopravvivere, fino quando non si è costretti a gettare la spugna, lasciando del tutto la professione, oppure facendo il collaboratore presso qualche grosso studio legale, il più delle volte in nero e non adeguatamente retribuito, spesso sfruttato e senza alcuna tutela in caso di malattia, di crisi economica oppure di gravidanza.

In conclusione, la maggioranza degli avvocati non è più in grado di sostenere la propria professione, perché i costi di gestione sono esosi e il lavoro troppo poco remunerato, inoltre non vi è alcuna assistenza sociale in caso di difficoltà o malattia, né la certezza di raggiungere un’adeguata pensione.

Allo stato attuale, un avvocato piccolo /medio può andare in seria difficoltà anche per un solo mese di chiusura dei Tribunali e del proprio studio, sia per gli esigui guadagni e sia perché i suoi risparmi, accumulati in “ere” ormai andate, sono stati già erosi da anni ed anni di pregressa crisi. Voglio ricordare che quando furono soppressi i Gdp e sez. Distaccate Tribunali, fra trasferimenti fascicoli, personale di cancelleria, attribuzione dei nuovi ruoli ai Giudici, gli avvocati appartenenti a quelle circoscrizioni giudiziali soppresse non hanno lavorato o comunque hanno guadagnato poco o nulla per un anno e più.              

Inoltre, discorrendo sulle pagine dedicate all’avvocatura sui vari social, emerge un altro dato incontrovertibile: moltissimi avvocati (medi e/o di base) provano un sentimento misto di invidia e rimpianto per coloro che hanno il cosiddetto posto fisso (specie per quello statale), per il reddito certo e per le garanzie sociali di cui godono (malattia, ferie retribuite, congedo parentale eccetera) e soprattutto per la certezza di una discreta pensione futura. A questo punto, un’altra domanda viene da porci: da quando il mondo gira alla rovescia? E, più precisamente, da quando “lo statale”, viene invidiato dall’avvocato, dal libero professionista? Eppure fino a qualche anno fa la libera professione, specie quella dell’avvocato, era ambita e desiderata da moltissimi che appena diplomati si iscrivevano in massa alla facoltà di giurisprudenza e successivamente, conseguito il titolo, in maggioranza si dedicavano alle arti forensi della difesa dei diritti ed interessi legittimi.

C’è poi un altro dato incontrovertibile: la crisi pandemica associata ad una pregressa crisi economica ha accentuato la tipica disarmonia e divisione che da sempre contraddistingue l’avvocatura. Divisione, questa, determinata anche per l’egoismo e la strafottenza “strettamente professionale ” insita quasi in ogni singolo avvocato sospinto da uno spirito individualistico, teso a tutelare solo e soltanto il proprio latifondo od orticello che sia, e poco interessato alle problematiche della categoria. Infatti, la corsa al bonus dei 600,00 euro ha accentuato la spaccatura nell’avvocatura italiana, sempre più divisa in veri e propri ceti, tanto che, nello specifico, si son venute a creare due fazioni: quella con basso redito (di gran lunga la maggioranza) che reclama il proprio diritto ad accedervi e quella con redditi medio-alti che, nell’esprimere pesanti giudizi di disappunto e di biasimo nei confronti dei colleghi richiedenti il bonus, forniva le più disparate motivazioni: che non era giusto che  vi si potesse accedere al bonus, prescindendo dalla regolarità contributiva a Cassa Forense; che, per la prassi diffusa dell’evasione fiscale, alcuni dei colleghi richiedenti avrebbero percepito indebitamente il bonus; che, per un mero principio di decoro, un avvocato che non guadagni adeguatamente per sostenere se stesso e la propria famiglia non è  da considerarsi degno di svolgere la professione. A tali motivazioni facilmente si può legittimamente controdedurre che non vi è alcuna violazione del principio di giustizia, in quanto il contributo di integrazione al reddito non viene elargito dalla Cassa Forense, ma dallo Stato ed il provvedimento ha natura assistenziale ed interviene in aiuto di coloro che, trovandosi in  stato di difficoltà economica,  non hanno versato i contributi per necessità e non per volontà; inoltre, evocare ‘‘il rischio che il bonus vada a favore probabili evasori’’ appare un’affermazione  quanto meno qalunquista e, in ogni caso, le istanze saranno soggette a rigidi controlli da parte dell’Agenzia delle Entrate; infine, vincolare la professione di avvocato al censo è, a mio parere,  un principio aberrante ed in totale discrasia con quanto statuito dall’art 4 della nostra Carta Costituzionale. Insomma, sentendomi legato alla tradizione e all’Avv. Calamandrei, piuttosto che al collega Cascione, con orgoglio affermo: “Io sono un avvocato, non faccio l’avvocato!”.

Avv. Marco Barbati

Segretario Sezione Nuova Avvocatura Democratica

Torre Annunziata

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