Avvocati in concorrenza distruttiva

11 Ottobre, 2016 | Autore : |

Il dumping indotto nell’avvocatura italiana, attraverso uno sguardo ai limiti di liceità e moralità dei comportamenti competitivi, in ragione degli effetti antisociali che essi possono generare.

 

Il dibattito in corso nell’avvocatura italiana su tariffe minime ed equo compenso consente di ragionare sull’aspetto ambivalente del concetto di abbassamento del costo della prestazione. Se proviamo a leggere documenti provenienti da soggetti che regolano la nostra economia, ci capita spesso di imbatterci in considerazioni che invitano ad aumentare la concorrenza tra liberi professionisti. Gli avvocati vengono spesso trattati come soggetti che praticano tariffe troppo alte, che finiscono con l’essere un costo sociale. Ma è davvero così?

 

Analizzando l’andamento dei redditi dell’avvocatura italiana, ed in particolare quelli dei più giovani, sembrerebbe proprio di no. Il rapporto Censis 2015, basato sull’autopercezione di un campione di circa 8.000 avvocati, rileva che nel nell’ultimo biennio, il 44% degli avvocati italiani avrebbe visto diminuire il proprio fatturato. I dati non sono diversi da quelli rilevati dai modelli 5 raccolti dall’ente previdenziale, che hanno fotografato, nel corso degli ultimi anni, una perdita di reddito considerevole per gli avvocati italiani.

 

Eppure il mantra dominante sembra l’invito a praticare tariffe più basse, a fare concorrenza sul prezzo, a chiedere sempre di meno, per abbassare il “costo” della prestazione. Un fenomeno che va oltre l’avvocatura, che pare ormai generalizzato, secondo una legge di mercato che parrebbe obbedire ad un unico dettame: “se c’è qualcuno che può farlo a “meno”, lo fa lui, mentre chi chiede di più è fuori”. Naturalmente questo porta a domandarsi cosa avvenga quando la logica del massimo ribasso possibile non serva ad eliminare inefficienze, ma a ricattare il prestatore d’opera, annichilendo il valore del lavoro e dell’impegno del professionista.

 

Quando si arriva a concepire sistemi in cui la concorrenza non abbia più una funzione di giustizia, ma porti alla distruzione di un servizio, per impossibilità di offrirlo ad un prezzo che renda conveniente farlo, è evidente che la concorrenza stessa diventa altro, e non può trovare sostegno in chi crede in una società fondata sul lavoro. È per questo che il dumping deve essere trattato anche come un costo sociale, e la difesa del costo del lavoro sta diventando sempre più un tema scottante, per impedire il prefigurarsi di una società priva di lavoro remunerativo.

 

L’avvocatura si trova alle prese con una moderna forma di dilemma del prigioniero: deve cioè chiedersi se i comportamenti competitivi, mossi da una spietata logica individualista di accaparramento, siano compatibili con il reale benessere del singolo, ovvero se una forma di cooperazione non rappresenti invece il miglior investimento da fare. Tutto questo però non può essere analizzato in modo esaustivo utilizzando solo la logica classica, ma occorre inserire nelle considerazioni da fare il concetto di homo empaticus, ovvero l’idea che l’utilità dei comportamenti individuali non debba essere vincolata alla massimizzazione del proprio benessere, ma ad una condivisione dello stesso.

 

Il rapporto tra individuo e collettività si sta evolvendo di pari passo con la rivoluzione dell’economia immateriale. Il capitalismo cognitivo determina la perdita di certezze acquisite, generando molti dubbi e una domanda, sempre più ricorrente: “dove si nasconde il valore?” Proprio un’indagine approfondita sul valore della concorrenza, che ne tratti le ricadute in modo problematico, dimostra come questo fattore non risponda ad un’idea semplicistica, per cui “più è sempre meglio”. Trovare l’equilibrio tra abbassamento dei costi e loro difesa, in modo da generare un equilibrio sociale sostenibile tra fornitori ed acquirenti di servizi legali, è compito primario dell’avvocatura italiana.

 

 

 

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