E’ emerso dalla 36^ edizione del Congresso Nazionale forense che la giustizia italiana è prigioniera del PNRR. Dovremo attendere giugno 2026 per poter tornare a parlare di “giusto processo”. Così, al congresso forense, il Ministro e l’onorevole Ciro Maschio hanno rassicurato gli avvocati: Sappiamo che ci sono storture, ma dovete aspettare. Al Congresso le nostre istituzioni hanno preso atto di tanto e, incredibilmente, hanno pure ringraziato. Ci è stato fatto anche il regalino di Natale: sono in arrivo i nuovi parametri forensi.
Tradotto: la giustizia può attendere, l’Europa no. È passato il principio più pericoloso di tutti: la giustizia è sacrificabile rispetto alle logiche economiche. E noi, avvocati, dopo aver ingoiato la riforma Cartabia, oggi sembriamo accettare supinamente l’idea che il diritto possa restare sospeso finché non si chiudono i conti con Bruxelles.
La riforma Cartabia, varata con il D.Lgs. 149/2022, è nata sotto il segno del PNRR. Non per rendere la giustizia più giusta, ma per renderla più veloce. Non per garantire decisioni migliori, ma per centrare target statistici indispensabili a sbloccare i fondi europei. In questa logica distorta, il principio della “ragionevole durata del processo”, previsto dall’articolo 111 della Costituzione, è stato completamente rovesciato: da garanzia per il cittadino a vincolo contabile. La giustizia non viene più valutata per la qualità delle sue decisioni, ma per la rapidità con cui produce sentenze. Come se un processo valesse quanto una scheda di produzione industriale. Ma la giustizia non è una catena di montaggio: è un presidio di libertà, il luogo dove si bilanciano poteri e si difendono diritti.
Abbiamo ormai capito che il PNRR pretende tempi, numeri, percentuali, ma ignora la complessità del giudicare, la necessità di approfondire i fatti, di ascoltare le parti, di motivare le decisioni. Si ragiona solo in termini di scadenze e obiettivi, senza considerare che dietro ogni fascicolo c’è una persona, un diritto, una vita. L’efficienza così intesa diventa un inganno: una giustizia che corre rischia di inciampare nella verità.

Il Giudice di Pace ne è l’esempio più lampante. Escluso dalle statistiche del PNRR, è stato abbandonato a se stesso, dimenticato perché “non fa numero”. Eppure è il primo presidio di giustizia per i cittadini, il punto di contatto più immediato tra lo Stato e la gente comune. Lasciare i giudici di pace senza risorse, senza personale, con uffici al collasso, significa negare l’accesso alla giustizia a migliaia di persone. È la prova che si preferisce investire dove si può esibire un risultato numerico, non dove si può garantire un diritto.
Ma la responsabilità non è solo delle istituzioni. È anche nostra, dell’avvocatura, che troppo spesso si è piegata al silenzio. Dopo la riforma Cartabia abbiamo accettato compromessi che avremmo dovuto denunciare, ci siamo adattati a un sistema che misura la giustizia in tempi e tabelle, dimenticando che la nostra funzione è un’altra: essere la voce critica, il contrappeso, la sentinella dei diritti. Non possiamo ridurci a spettatori mentre la giustizia viene trasformata in una performance contabile.
La verità è che la riforma, invece di accelerare i processi, li ha complicati. Le nuove norme hanno moltiplicato adempimenti e interpretazioni, creando più confusione che efficienza. I tribunali arrancano, i magistrati sono schiacciati dalla pressione dei tempi e finiscono per decidere in fretta, spesso a scapito dell’approfondimento. È il paradosso di una giustizia che, nel tentativo di diventare più veloce, rischia di diventare più ingiusta.
Eppure l’Europa non ci chiede questo. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo lo ha detto chiaramente: la “ragionevole durata” deve essere bilanciata con la qualità del processo. Efficienza sì, ma non a costo dei diritti. È l’Italia ad aver scelto di piegare la giustizia a una logica ragionieristica, come se il rispetto delle garanzie fosse un lusso da rimandare a bilanci chiusi.
Aspettare il 2026 è un lusso che non possiamo permetterci. Ogni giorno che passa, la distanza tra giustizia e cittadino si allarga. Dobbiamo reagire ora, pretendere correttivi, denunciare le disfunzioni, vigilare sugli effetti di una riforma che rischia di svuotare di senso il giusto processo. L’avvocatura deve tornare a essere protagonista, non comparsa.
La giustizia non è un obiettivo del PNRR, è un diritto costituzionale. E i diritti non si sospendono per ragioni di bilancio. Il messaggio “sappiamo che ci sono storture, ma dovete aspettare” è indegno di uno Stato di diritto. I cittadini non possono attendere che un piano economico finisca per ottenere giustizia.
Il sistema attuale, rafforzato dalle riforme degli ultimi 15 anni, Cartabia compresa, sembra voler conseguire i risultati statistici attraverso una continua espulsione dai Tribunali del contenzioso, ormai sfociata in palese “denegata giustizia”. Non si può accettare che il prezzo di una giustizia forse rapida, sia renderla certamente per pochi
La sfida non è chiudere i processi entro il 2026, ma restituire credibilità e dignità al sistema giudiziario. Una giustizia che serva le persone, non le statistiche. Perché quando la giustizia diventa un numero, smette di essere giusta. E se noi, avvocati, non lo diciamo con forza, chi lo dirà?
Direttivo Nazionale Nuova Avvocatura Democratica