ITALIA 2016: MENO GIUSTIZIA SENZA GIUSTIZIA

1 Gennaio, 2017 | Autore : |

La propaganda governativa di questi anni ha teso a rappresentare l’esigenza di riduzione del cosiddetto “arretrato” di cui sono carichi i tribunali italiani, come l’elemento principale su cui valutare la capacità di azione della politica in campo giudiziario. Un fattore lineare, quello della diminuzione delle pendenze, che i Ministri della Giustizia, in particolare quello attualmente in carica, sono riusciti a spacciare come termometro dell’efficienza del sistema giudiziario. Si è così creato il mito della “riduzione dell’arretrato”, un totem, che l’ignoranza dilagante nel paese e la distanza dalla comprensione dei fenomeni giuridici dell’uomo qualunque, ha ritenuto di avallare e venerare.

Il ruolo dell’avvocatura istituzionale, in questa favola per illetterati, è stato ovviamente connivente. Ho più volte spiegato che il regime dell’istituzionalizzazione forense vende gli avvocati e i cittadini alla mala politica, in cambio dell’impunità e della possibilità di avere mano libera al proprio interno, consolidando le posizioni di potere dei propri esponenti apicali. Non è un caso che parte dell’isolamento e della delegittimazione politica che l’Organismo Unitario dell’Avvocatura abbia subito, da parte del regime istituzionalizzato, nell’ultimo biennio (2014- 2016), siano derivati anche da posizioni critiche verso il Ministero della Giustizia, difeso invece a spada tratta dal Consiglio Nazionale Forense, nonostante una situazione della giustizia italiana sempre fallimentare.

Un’analisi seria e non interessata dello stato evolutivo della giustizia nel nostro paese non può prescindere da indicatori qualitativi, non lineari, che analizzino non solo e non tanto il numero di pendenze che languono nei tribunali, ma il grado di affidabilità del sistema, la sua capacità di legare leggi e sentenze alla concreta soddisfazione dei bisogni e degli interessi dei cittadini. In altri termini, ciò che è percepito persino dall’uomo qualunque, ma è negato da operatori di settore asserviti alla politica, è che il sistema giudiziario fa giustizia solo quando crea soddisfazione, quando è in grado di riparare ai torti subiti, quando gli interessi collegati ai diritti vengono tutelati in concreto.

Avere meno arretrati non vuol dire avere più giustizia, perché se questa grandezza lineare, si lega ad un diniego di giustizia, ad una rinuncia alla giustizia, da parte della cittadinanza, il sistema non può considerarsi più efficiente. Se poi la rinuncia ad esercitare i propri diritti e a perseguire i propri interessi, avviene perché è il sistema stesso a rendere di fatto inutile il ricorso alla giustizia, la diminuzione delle pendenze non può essere letta come un avanzamento dello Stato, ma diviene il sintomo evidente della sua resa, di una ritirata inaccettabile dalla tutela di uno dei settori vitali per la tenuta sociale e politica del paese.

Il rapporto CEPEJ 2016 contribuisce a sfatare alcuni miti della propaganda governativa. L’Italia viene mostrata per ciò che effettivamente è: un paese in cui la bulimia della giustizia e delle norme non è ancora riuscita a trovare uno sbocco che razionalizzi il sistema, rendendolo efficiente, ed allo stesso tempo accessibile. Un paese in cui le asimmetrie tra poteri e cittadini non trovano nella giustizia un valido strumento che sappia contrastare le ingiustizie, ma soprattutto un paese in cui nei confronti della giustizia si vive ormai un diffuso clima di sfiducia, a causa di sentenze che continuano ad arrivare dopo periodi di tempo inaccettabili, incertezza della pena, procedure esecutive in danno dei debitori insolventi totalmente inefficaci, costi per l’esercizio dell’azione giudiziaria insostenibili, per la gran parte della cittadinanza. Occorrerebbero riforme serie, che non si preoccupassero di tagliare i processi, ma di renderli utili alla tutela degli interessi e dei diritti violati, ma questa impostazione del problema giustizia è praticamente assente dal dibattito pubblico sul tema, e vede l’avvocatura, tanto per cambiare, tagliata completamente fuori da un ruolo propositivo, creativo e propulsivo.

Alcuni dati possono contribuire a rendere visivamente evidenti le affermazioni contenute in questa analisi.

Le due grandezze riportate in figura 1 mostrano come leggere i dati che riguardano il rapporto tra procedimenti risolti e nuovi, in riferimento all’anno, e procedimenti pendenti e risolti, sempre con riferimento all’anno. Sono due indicatori del numero di procedimenti che consentono di capire se si aprono più procedimenti di quanti se ne definiscano.

Con un cleareance rate del 119% l’Italia rappresenta il paese che sta smaltendo il maggior numero di pendenze, in tutta l’area indagata da CEPEJ. Una riduzione del contenzioso di grande impatto, che però si lega non all’efficienza del sistema, ma alla rinuncia del suo utilizzo, come mostrano i dati successivi:

L’Italia resta uno dei paesi in cui la giustizia è la più lenta in Europa e ciò nonostante vi siano molte meno pendenze.

L’evoluzione dei tempi di definizione dei procedimenti pone l’Italia al vertice negativo della durata degli stessi, vicino al massimo, che si verifica in Bosnia Erzegovina.

Vi sono poi specifici indicatori che mostrano la lentezza (e dunque l’inefficienza) del nostro sistema giudiziario. Anche qui, le immagini rendono meglio delle parole:

La figura in alto illustra la durata dei procedimenti di divorzio. L’Italia svetta, in negativo, per i tempi di definizione dei procedimenti analizzati.

Proseguendo l’indagine si passa alla capacità del sistema giudiziario italiano di assicurare la definizione di casi di insolvenza, in tempi ragionevoli.

 

 

anche in questo settore, la performance del nostro paese resta tra le più negative d’Europa.

 

 

L’analisi dei dati comparati a livello europeo disegna un sistema giurisdizionale nazionale di cui c’è poco da andare fieri. La bulimia normativa, i tempi infiniti dei processi, i costi insostenibili per le azioni, l’assenza di rimedi efficaci per la tutela dei cittadini e delle imprese che subiscono torti, non consentono di considerare il calo dei procedimenti pendenti come un elemento che manifesti maggiore giustizia, quanto piuttosto come il segno di una resa. Gli italiani, semplicemente, non credono più che la giustizia possa essere assicurata nei tribunali e questo genera un clima di crescente sfiducia verso le istituzioni, anche verso la magistratura, che pure in anni recenti, grazie al ruolo di supplenza rispetto alla politica, percepito nel paese, veniva considerata uno degli elementi di tenuta dell’intero sistema.

 

L’avvocatura, in questo quadro, gioca un ruolo semplicemente inesistente. Sempre in affanno, mai propositiva, priva di qualsiasi autorità e autorevolezza, non dotata di una rappresentanza politica unitaria e dunque incapace di dare eco a propri progetti di riforma complessivi. Nonostante questo, le istituzioni del regime non mancano di applaudire, quasi con cadenza quotidiana, al Ministro della Giustizia attualmente in carica, manifestando una corrispondenza di amorosi sensi assolutamente ingiustificata. La riduzione del contenzioso e il rifiuto di giustizia, che pure dovrebbero essere aspramente criticati da un’avvocatura autonoma, sono invece spacciati come successo politico. La pretesa di nuovi campi di attività, appannaggio degli avvocati, che dovrebbero essere la doverosa contropartita richiesta alla politica, in cambio di una riduzione delle pendenze, operata per di più con drastiche riduzioni dell’offerta di giustizia, sono totalmente assenti dall’agenda del regime. Si pensa unicamente ai soldi, allo sfruttamento dei colleghi, a raccattare tutto il malloppo, mentre la nave affonda.

 

“Sul ponte sventola bandiera bianca…” Cit.

 

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