La “MONOCOMMITTENZA”  secondo NAD

10 Maggio, 2019 | Autore : |

Nel mondo della professione forense in questi giorni sta assumendo centralità il dibattito sulla compatibilità tra la professione di Avvocato e la monocommittenza.

Argomento divisivo in una Classe che sa essere divisiva come poche, come sempre accade, è trattato con scarsissima onestà intellettuale.

Il termine “monocommittente” racchiude in realtà più di un significato ed è utilizzato, forse peraltro impropriamente, in genere per identificare l’avvocato che eserciti la propria professione unicamente quale collaboratore di altro Collega dimenticando che, accanto a tale figura, vi è certamente almeno un altra tipologia di rapporto rientrante nell’alveo della nozione di “monocommittenza”: quella dell’avvocato che presti la propria attività professionale in favore di  un unico cliente (istituto di credito, compagnia assicurativa, casa discografica, ente ospedaliero etc.). Si tratta, come ovvio, di due rapporti completamente diversi che, tuttavia, necessitano di regolamentazione scontando entrambi i limiti di una normativa che ancora oggi, arcaicamente, sancisce l’incompatibilità fra lavoro subordinato e professione forense.

Nel prosieguo del presente intervento ci  si propone dunque di affrontare, senza pretesa di esaustività, entrambe le questioni offrendo la visione di NAD sul punto.

Una visione improntata, ovviamente, ai principi di libertà che da sempre fondano la nostra azione.

La necessità di regolamentare in qualche misurail rapporto di lavoro professionale tra un Avvocato titolare di Studio Legale e un avvocato collaboratore è avvertita da molti. Prova ne sia che anche il Congresso nazionale forense di Catania è stato costretto ad affrontare il tema.

Coordinate ermeneutiche nelle quali muovere un ragionamento che non si riduca a mero sofismo impongonodi tracciare un sistema cartesiano nel quale avere come assi di riferimento da un lato la realtà vissuta da migliaia di iscritti all’Albo e dall’altro il principio di indipendenza che si ritiene ontologico rispetto alla professione forense.

È necessario, però, tracciare un quadro, pur approssimativo, della normativa vigente con la consapevolezza per il lettore che lo stesso è necessariamente sommario avendo come scopo il presente scritto quello di provocare il ragionamento e non offrirsi come strumento pedagogico per altri Colleghi.

In piena corrispondenza con l’idea dell’Avvocato come professionista capace di garantire al Cliente il massimo della tutela solo se libero da qualsiasi vincolo atto a comprimerne l’autonomia, l’art. 18 della legge professionale forense ribadisce e postula l’incompatibilità dell’esercizio della professione forense con qualsiasi attività di lavoro subordinato.

La norma in questione è utilizzata da chi ritiene incompatibile la professione forense con il regime di monocommittenza, anche quella tra avvocato ed avvocato, come caposaldo invalicabile  a presidio della indipendenza dell’Avvocato.

In realtà sono molte le eccezioni all’esercizio della professione in concomitanza di rapporti di lavoro di natura subordinata. Si consideri, solo a titolo di esempio, la possibilità dell’Avvocato di contrarre rapporti di lavoro subordinati ad oggetto l’insegnamento di materie giuridiche presso le scuole secondarie o l’esercizio dell’attività di pubblicista.

Inoltre tale principio, apparentemente monolitico, né trova giustificazione in Costituzione né è presupposto logico di norme succedutesi nel tempo in tema di esercizio della professione.

Sotto il primo aspetto è agevole costatare come la Carta Costituzionale, a differenza di quanto accade in maniera stringente per la Magistratura, non preveda limitazioni esplicite e tassative, né dispone che la norma ordinaria possa prevederne.

Sotto il secondo aspetto, poi, è la stessa legge professionale forense a prevedere forme di esercizio della professione “altre” rispetto a quella dell’Avvocato “monade” padrone di se stesso. Si considerino, solo come spunto di riflessione, la possibilità di contrattualizzare rapporti continuativi e coordinati con committenti per l’attività di consulenza stragiudiziale ovvero la possibilità di esercizio della professione in forma di società tra professionisti ovvero, ancora, la possibilità di partecipazione alla società tra professionisti del socio di capitale.

A ben vedere, quindi, né la legge professionale forense né il codice deontologico forense contengono divieti in ordine alla possibilità di collaborazione tra avvocato ed avvocato in regime di monocommittenza.

Ciò posto, occorre stabilire se, e come, debba incidersi sul dato normativo con un occhio alla realtà che vivono migliaia di professionisti oggi.

È noto come l’accesso indiscriminato alla professione forense, favorito dalla mancata previsione del numero chiuso presso le facoltà di Giurisprudenza o dalla mancata previsione di alcun limite numerico all’accesso all’esame di abilitazione, abbia portato ad avere in Italia un numero di avvocati sovrabbondante rispetto alla possibilità di assorbimento del mercato della professione. Tale stato di fatto ha causato un dumping professionale, con conseguente perdita di potere economico e contrattuale dei singoli avvocati, e l’affermazione di forme di esercizio della professione ben lungi dal modello ideale della libera Avvocatura.

Per il primo aspetto ed alla illogica previsione di una contribuzione previdenziale minima svincolata dal reddito, si rinvia il lettore ai numerosi interventi di Nuova Avvocatura Democratica.

Il secondo, in questa sede, merita maggiore attenzione. Prima, però, bisogna stabilire, teleologicamente, quale è il ruolo del legislatore in uno Stato liberale di impianto e tradizione occidentali. Lo stesso deve plasmare la realtà su metaprincipi assiomatici o governarne gli aspetti critici? Si ritiene la seconda più attinente alla tradizione richiamata ed ai suoi riverberi nella Carta costituzionale.

Il legislatore, quindi, deve porsi come osservatore del reale dalla sua posizione privilegiata ed analizzarne i contenuti senza cedere alla tentazione di voltare lo sguardo quando gli stessi non rispondano alle proprie sovrastrutture ivi comprese quelle derivanti dalla tradizione.

Chiunque guardi all’attualità, quindi, non può negare o sottostimare che in Italia il sistema Giustizia dal lato della difesa veda la presenza di due ordini di Avvocati, quello dei titolari di Studio da un lato e dei collaboratori dall’altro.

I costi della tenuta di uno Studio Legale, la difficoltà di garantirsi un reddito costante e certo, la concorrenza al ribasso sul mercato per accaparrarsi clientela, un sistema Giustizia farraginoso, inducono molti Avvocati a porre la propria competenza professionale a servizio di un Collega con mezzi tali da sostenere i costi di uno Studio, in maniera esclusiva, continuativa e sottoponendosi al potere di direzione dello stesso. È evidente come, al di là di ogni possibile ipocrisia, in tale fattispecie si configurino i contenuti minimi che la giurisprudenza e la dottrina giuslavoristica hanno individuato come costitutivi del rapporto di lavoro subordinato o parasubordinato. A ciò si aggiunge la sproporzione in termini di forza contrattuale tra collaborato e collaborante avente scaturigine dalle condizioni di partenza e resa più grave dalla mancanza di tutela alcuna.

Le forme di collaborazione suddette, inoltre, assumono aspetti diversi, e finanche più gravi, allorquando le stesse siano prestate all’interno di Studi di grandi dimensioni dove viene meno finanche il rapporto umano tra il Collaborato ed i Collaboranti. È noto come in realtà di tal fatta esistano Colleghi condotti all’iperspecializzazione non solo per materia, ma addirittura per atto professionale. Mente chi voglia negare di avere contezza dell’esistenza di “comparsisti”, “memoristi”, “precettisti” et similia.

Mente, altresì, chi neghi di conoscere la tragedia umana di Colleghi a lungo collaboratori di pur prestigiosi studi che, in età non più giovane, siano stati messi alla porta per presunta o reale contrazione del volume d’affari, o per semplice scelta del titolare, ritrovandosi senza clientela propria a doversi reinventare professionalmente.

Che occorra trovare, e presto, una soluzione è dato obiettivo. Quale debba essere la soluzione, poi, è questione relativa alla capacità di interpretazione e previsione del reale da parte di chi la proponga.

La soluzione, in ogni caso, per essere efficace, non potrà svincolarsi dalla realtà, quella vera, in ossequio della verità ideale. Non potrà, quindi, non tenere presente il contesto nel quale si muove l’Avvocatura italiana in relazione ai modelli europei (che prevedono la subordinazione) ed alla emersione di dati fattuali che stanno determinando darwinianamente l’estinzione dei piccoli studi legali.

La Legge professionale va modificata con l’introduzione di una norma che elimini l’incompatibilità tra la professione forense e il lavoro dipendente o parasubordinato all’interno di un’organizzazione di Studio con l’unico limite che quella subordinazione rispetti la professionalità del singolo professionista.

Questa la soluzione minima. In vero, coerentemente con un sistema professionale improntato alla natura liberale delle professioni intellettuali, l’Avvocatura andrebbe svincolata da ogni lacciuolo che impediscala possibilità di esprimere la propria professionalità e la propria potenzialità al di fuori della logica desueta che vede l’Avvocato principalmente come difensore in sede processuale castrandone la funzioni di giurisperito, consulente, protagonista di sistemi di prevenzione e gestione delle dispute in sede stragiudiziale.

Una previsione che legittimi, sine dubio, la possibilità dell’Avvocato di autolimitare la propria indipendenza, come atto supremo di esercizio della libertà costituzionalmente garantitagli, si inserirebbe senza evidenti aporie in un contesto nel quale è già consentital’instaurazione delle c.d. collaborazioni eterodeterminate dalla committenza, caratterizzate dalla subordinazione, nell’esercizio della professione intellettuale da parte di professionisti iscritti ad albi, i rapporti di collaborazione continuativa organizzata dal committente prestati nell’esercizio di professioni intellettuali, per le quali è necessaria l’iscrizione in appositi albi professionali.

Posto il pacifico principio di diritto che vuole i rapporti di lavoro determinati dal concreto atteggiarsi delle dinamiche tra le parti, con conseguente applicazione della disciplina contrattuale da applicare al caso concreto, occorre quindi, prevedere, a garanzia dei contraenti deboli, i requisiti minimi circa la forma ed il contenuto dei rapporti di collaborazione.

Altre vie non sembrano percorribili se non si voglia scegliere di battere ancora la via dell’ipocrisia o se non si voglia dissennatamente imboccare quella, assolutamente ipotetica dati i numeri in campo e la scarsità di mezzi di controllo, di prevedere la cancellazione dall’albo di tutti quei Colleghi che non possano dimostrare l’esercizio autonomo e prevalente della professione.
Tutto quanto argomentato in forma e sostanza, bene si coniuga con altro concetto di mono committenza, ovvero il profilo professionale dell’Avvocato che esercita la sua professione esclusivamente per un solo cliente, ovvero per una persona giuridica. Anche questa ipotesi, molto comune, trova degli sbaragliamenti nella legge professionale, laddove al Professionista – altamente specializzato nel settore, come per esempio, diritto d’autore, diritto della navigazione, diritto dei trasporti, ecc.- , venga offerta l’assunzione presso l’ente giuridico stesso. Infatti, ll’avvocato che accetti liberamente di lavorare da dipendente, nella più assoluta autonomia professionale e decisionale, si vedrà costretto a cancellarsi dall’albo forense per assistere il proprio cliente, ma con il paradosso di non poter tutelare il proprio assistito dinanzi alle Corti e di essere costretto a rivolgersi ad un Avvocato iscritto all’albo, spesso totalmente ignaro della specificità delle materie trattate, sicuramente non all’altezza delle conoscenze dello specialista, che, in realtà, si limiterà solo ed esclusivamente ad apporre la firma al lavoro svolto da altri.
Del resto la formula dell’Avvocato interno, iscritto agli albi speciali, è una figura già esistente che consente una tutela piena del cliente e il rispetto della libertà professionale dell’Avvocato, (basti pensare agli Avvocati dei Comuni, Regioni, Inps, ed enti pubblici in generale).
In un contesto storico e sociale magmatico, lontano dalla cristallizzazione di una legge professionale nata già anacronistica e inadeguata al mondo del mercato, è doveroso, dunque, consentire, proprio in virtù della libertà di scelta dell’Avvocato di esercitare la propria professione in maniera piena e autonoma, di poter optare per una mono committenza che soddisfi tanto l’esigenza del cliente, sicuramente più tutelato, quanto l’Avvocato capace di poter esprimere tutta la propria professionalità anche giudizialmente e non dietro le quinte.

Il primo passo, dunque, pare essere la modifica della legge professionale con un superamento, netto, dell’incompatibilità attuale fra professione e lavoro dipendente. Il secondo la creazione di una forma di regolamentazione flessibile che, da una parte, offra tutela a chi si trova oggi, in una condizione di subordinazione di fatto senza godere delle tutele relative e, dall’altra, consenta invece alle parti – professionista e cliente – che vogliano congiuntamente optare per il vincolo di subordinazione di poter scegliere in assoluta autonomia.

Il Direttivo Nazionale

Nuova Avvocatura Democratica

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