DECORO E REDDITO: NAD AVEVA RAGIONE

6 Aprile, 2018 | Autore : |

 

Come spesso accade, quando le notizie non sono più occultabili da una rappresentazione di facciata o viene meno il potere delle armi di distrazione di massa, l’opinione pubblica è costretta a prendere atto di fatti che esplodono, in tutta la loro virulenta verità. La fame degli avvocati, la crisi dell’avvocatura di massa, lo scoppio della bolla che NAD ha da sempre denunciato e che molti tra noi hanno posto fin dal principio della loro attività politica al centro delle giuste preoccupazioni, sta diventando ormai impossibile da nascondere.

I giornali italiani, sempre più spesso, si concentrano sul numero insostenibile di avvocati presenti all’interno del mercato delle prestazioni forensi, puntando il dito contro una folle corsa all’acquisto di un titolo che sta via via perdendo ogni valore economico e di conseguenza, genera miseria reddituale, che inevitabilmente favorisce quella morale.

Il 4 aprile è stata la volta del corriere del mezzogiorno, con un articolo incentrato sui numeri spaventosi che riguardano l’avvocatura napoletana.

 

In particolare si può leggere:

 I rappresentanti di categoria parlano di «proletarizzazione della professione forense» per indicare le condizioni oggettivamente critiche in cui avviene l’esercizio dell’avvocatura. In particolare in Campania, seconda regione in Italia dopo la Calabria per densità di iscritti all’Ordine: con 5,9 avvocati ogni mille abitanti. Ed è in Campania che gli avvocati stentano maggiormente, facendo registrare redditi più prossimi alla soglia di povertà (24 mila 967 euro di media annua) che agli elevati standard immaginati per una categoria professionale da sempre ritenuta degna di considerazione.

Sono questi i dati salienti che emergono dall’ultimo rapporto di Cassa forense sui numeri dell’avvocatura 2017. In verità il capitolo pensioni presenta aspetti ancora più controversi, dato che per le donne fa registrare una media annua di appena 18 mila 583 euro e per gli uomini di 33 mila 937 euro per un totale pari a 27 mila 403 euro. Ma non è tutto, dato che il quotidiano Italia Oggi spiega che ben 8 mila 594 avvocati in quiescenza sui 28 mila 520 totali si trova inserito nella fascia che va tra i 10 mila e i 15 mila euro di pensione. Ovviamente, al Nord la situazione è diametralmente opposta: c’è meno densità di avvocati e soprattutto, grazie ad una clientela più facoltosa, si guadagna molto di più. In Lombardia il reddito medio è di 67 mila 382 euro, in Trentino di 63 mila 576, ed in Veneto di 48 mila euro annui. 

Ma perché non si pensa di porre un argine alla fiumana di laureati in Giurisprudenza sfornati ogni anno dalle università? «Non si comprende perché altre facoltà impongano il numero chiuso e a Giurisprudenza, invece, continui il libero accesso alle immatricolazioni — commenta Chicco Ceceri, avvocato amministrativista —. Negli ultimi dieci anni, peraltro, il calo del fatturato è stato almeno del 50 per cento nell’ambito amministrativo. E si spiega anche facilmente: le amministrazioni pubbliche non hanno soldi; producono, quindi, meno provvedimenti; e sono sempre di numero più ridotto gli avvocati impegnati a difendere o ad impugnare gli atti. Di contro, è aumentata soltanto la parte consulenziale che ovviamente opera una ulteriore selezione di qualità professionale».

Peggio di tutti sono messi i giovani avvocati. Quelli sotto i 30 anni guadagnano in media 11 mila 334 euro all’anno e tra i 40 e i 44 anni intorno ai 29 mila 344 euro. Questo è il dato nazionale. Quello campano, invece, si attesta su cifre peggiori. 

 

Si tratta di considerazioni che ormai si impongono e che nemmeno il tentativo, goffo e disperato, operato dalla Cosa Nostra Forense, cercando di parlar di tutto per non parlar d’amore, riesce più ad evitare.

Nelle stesse ore anche un giornale che si occupa di analizzare la realtà sociale di regioni meno depresse economicamente rispetto al mezzogiorno, il Resto del Carlino, dava ampio risalto all’impoverimento dell’avvocatura, parlando di una professione da cui ormai si fugge, raccontando la perdita di opportunità economiche e reddituali con un’intera pagina dedicata al fenomeno.

 

Anche qui, con buona pace di un sistema ordinistico che ha mentito per anni alle giovani generazioni, i dati hanno lasciato poco spazio alla propaganda e alla retorica. Le vere problematiche connesse alla nostra professione appaiono scoperte, raccontano spaccati di vita crudi, amari, con famiglie che devono cercare scampo da un sogno di benessere e prestigio sociale che si è rivelato fallace, ma soprattutto, con prospettive future che appaiono, secondo ogni indagine seria, molto peggiori di quelle presenti.

Gli avvocati stanno ormai prendendo coscienza del grande inganno, di una professione che scompare, travolta dai mutamenti della tecnica, dall’arretramento volontario dello Stato, che rifiuta di esercitare il proprio ruolo nell’ambito del settore giustizia, vessata da una Cosa Nostra Forense che agisce contro i più deboli, comportandosi da braccio armato di chi vuole che la bulimia dell’avvocatura italiana finisca con un bagno di sangue e non con un passaggio assistito e governato ad un diverso modello operativo, compatibile con condizioni di lavoro eque per tutti, con un concetto di “concorrenza” che non sia improntato alla cannibalizzazione dei protagonisti del mercato delle prestazioni legali.

In un mio articolo, ospitato  nel giugno del 2016 dal noto portale giuridico “la legge per tutti”, ho parlato di “concorrenza distruttiva“. Questo concetto deve diventare patrimonio giuridico della nostra società, uscendo dalle discussioni da bar ed improntando l’agire di chi dovrebbe guidare gli avvocati verso un futuro diverso e migliore. In particolare scrivevo:

 

L’avvocatura si trova alle prese con una moderna forma di dilemma del prigioniero: deve cioè chiedersi se i comportamenti competitivi, mossi da una spietata logica individualista di accaparramento, siano compatibili con il reale benessere del singolo, ovvero se una forma di cooperazione non rappresenti invece il miglior investimento da fare. Tutto questo però non può essere analizzato in modo esaustivo utilizzando solo la logica classica, ma occorre inserire nelle considerazioni da fare il concetto di homo empaticus [4], ovvero l’idea che l’utilità dei comportamenti individuali non debba essere vincolata alla massimizzazione del proprio benessere, ma ad una condivisione dello stesso.

Il rapporto tra individuo e collettività si sta evolvendo di pari passo con la rivoluzione dell’economia immateriale. Il capitalismo cognitivo determina la perdita di certezze acquisite, generando molti dubbi e una domanda, sempre più ricorrente: “dove si nasconde il valore?” Proprio un’indagine approfondita sul valore della concorrenza, che ne tratti le ricadute in modo problematico, dimostra come questo fattore non risponda ad un’idea semplicistica, per cui “più è sempre meglio”. Trovare l’equilibrio tra abbassamento dei costi e loro difesa, in modo da generare un equilibrio sociale sostenibile tra fornitori ed acquirenti di servizi legali, è compito primario dell’avvocatura italiana.”

 

Ci troviamo di fronte ad un dramma epocale, che sta mutando radicalmente la società, l’economia, travolgendo valori che potevano forse funzionare nel secolo scorso, ma che oggi risultano del tutto inadeguati, grotteschi, incapaci di generare inclusione e fiducia nelle istituzioni. Uno di questi spauracchi che va superato e che NAD sta meritoriamente contribuendo a superare è sicuramente il decoro.

Già, il decoro. Cavallo di battaglia di una Mafia Forense che non manca mai di sbandierarlo alla prima occasione, questo concetto metagiuridico, assurto a metro e metrica di una narrazione posticcia, è diventato nel tempo la cappa plumbea utilizzata dai padrini dell’avvocatura per tacitare ogni spinta ad un miglioramento delle condizioni materiali degli avvocati italiani più deboli e più poveri. Persino la denuncia di condizioni di vita insostenibili, di una ristrettezza divenuta fidata compagna di decine di migliaia di professionisti, è stata ripudiata dalle istituzioni forensi italiane, che l’hanno tacciata di essere “indecorosa”. Esattamente: chi ha urlato all’Italia che gli avvocati fanno la fame, che non ce la fanno più, chi ha tentato di ottenere aiuto e ascolto dalla cittadinanza e dalla politica, lungi dall’essere stato ascoltato e difeso dai nostri “rappresentanti”, ha subito lo scherno, la derisione, il disprezzo.

 

NAD non si è fatta ingabbiare da questa vuota parola. Abbiamo saputo declinare il decoro come dovere di difendere i colleghi travolti dalla crisi. Abbiamo lottato per dire ai cittadini italiani che gli avvocati, quelli veri, quelli fuori dalla Cosa Nostra Forense, non sono una casta, ma sono donne ed uomini che hanno provato ad inserirsi nella società, studiando, formandosi, provando a dare un contributo onesto al progresso del paese, ma sono stati portati all’orlo del baratro, per via di una politica miope, vorace, disonesta, che sta mettendo in ginocchio la professione forense e la giustizia.

Il danno, si badi, non riguarda solo gli avvocati, ma tutti i cittadini, che vedono nell’impossibilità di operare di un’avvocatura forte e libera un grave handicap nella difesa dei diritti e degli interessi della gente comune. Forse si vuole proprio questo? Forse dietro questo scialbo concetto di decoro si mira a nascondere l’ipocrisia di un’Italia forte con i deboli e servile con i forti?

NAD ritiene che sia proprio così. Noi pensiamo che la distruzione di un sistema giudiziario efficace ed efficiente, capace di offrire soluzioni ai problemi degli onesti e dei cittadini perbene, non sia affatto un accidente casualmente piovuto dal cielo. La politica italiana ha scientemente smantellato la giustizia, per garantirsi impunità e per costruire un sistema predatorio legalizzato, in cui ciò che è legale è ben lungi dall’essere morale. Abbiamo costruito una giustizia in cui i reverendi narrati dal Verga sono i padroni incontrastati del giusto e del vero, mentre i poveri diavoli, anche quelli che hanno tutte le ragioni di questo mondo, non hanno praticamente strumenti per farle valere e sono costretti a rinunciare all’esercizio dei propri diritti. In questo scenario, umiliante, devastante, spaventoso, l’avvocatura non è stata assolutamente in grado di fare da argine, ma ha girato la testa dall’altra parte, costruendo espedienti in grado di garantire agli amici degli amici la sopravvivenza e condannando il volgo all’estinzione.

 

 

 

I numeri non mentono mai ed i dati pubblicati dal rapporto CENSIS sull’avvocatura, relativi al 2017, raccontano di un terzo degli italiani che rinuncia a far valere i propri diritti, con una percentuale letteralmente spaventosa, pari al 36,3% del campione rappresentativo del paese, rilevata tra gli italiani in possesso di un titolo della laurea.

Sono numeri che raccontano l’apocalisse della giustizia, con buona pace dei nostri Andrea, i signori Mascherin ed Orlando, rispettivamente Presidente del Consiglio Nazionale Forense e Ministro della Giustizia degli ultimi 5 anni. In pratica, quasi il 40% degli italiani con un alto titolo di studio rinuncia a far valere i propri diritti, ritenendolo controproducente, non profittevole, ritenendo che cercare giustizia costituisca una perdita di tempo e di soldi.

Qualcuno si sente di dar torto a queste persone? NAD non vuole farlo, non ci sentiamo di dare torto a chi alza le mani di fronte ad un fallimento che nessun racconto, falso ed edulcorato, può ormai nascondere o imbellettare.

 

 

 

Il dramma di una giustizia negata, lontana da chi ne ha bisogno, tocca anche gli avvocati. Siamo anche noi vittima di un sistema che ci nega il riconoscimento di diritti fondamentali. Il diritto a non venire vessati da un Ordine Forense che seleziona le vittime e i sopravvissuti come si faceva nei lager nazisti. I sani, i ricchi, i forti, da una parte; i deboli, i moribondi, i malati, gli improduttivi, fuori dalla professione. Il tutto, si intende, molto, molto, molto decorosamente.

Avv. Salvatore Lucignano

 

 

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