SUL NUMERO DEGLI AVVOCATI

13 Dicembre, 2018 | Autore : |

Nel contesto letargico dell’avvocatura italiana, di tanto in tanto, qualche fatto desta, per qualche secondo, il dibattito collettivo. Una Classe non classe, quindi, si ritrova ad interrogarsi, sterilmente e con poca consapevolezza, sui propri destini progressivi. La componente politica dell’Avvocatura, dal suo canto, serrata sulle proprie rendite di posizione, continua a ballare il valzer sulla nave che affonda, complice di un naufragio che la vede causa efficiente.

È di queste ore lo stupore attonito rispetto alla diminuzione dei partecipanti all’esame per il conseguimento dell’abilitazione alla professione di Avvocato.

Le analisi raffazzonate puntano il dito unicamente sulla crisi della professione, dato incontestabile, e stimolano la reazione di pancia con la retorica della dignità perduta.

Un’analisi più seria, però, dovrebbe inserire il dato in un contesto più ampio che vede nel Belpaese, terra di profonda tradizione umanistica, l’attacco frontale a quella cultura che lo caratterizza. Un attacco che viene da lontano da un lato attraverso il tentativo di importazione di un sistema tecnocentrico di tradizione anglosassone e dall’altro attraverso la polverizzazione dei redditi dei laureati in materie umanistiche.

La laurea è un investimento personale ed economico ancora di alto impegno e la prospettiva di uscire dal corso di studi universitari per ritrovarsi nel tritacarne del lavoro salariato precarizzato non è allettante. Essere laureati in filosofia, lettere, giurisprudenza o storia per rispondere ad un call center o per impacchettare panini al Mc Donalds è una sconfitta personale che narra la cancerosa crisi di un sistema che, in nome di presunte efficienza ed utilità, traccia un solco profondo tra la anima e consumo.

Nel decennio che intercorre tra l’anno accademico 2006/2007 e il 2016/2017 i corsi a ciclo unico di Giurisprudenza hanno mostrato un saldo negativo del 38 per cento.

La distorta etica dell’utilità del lavoro ha vinto. “Ognuno vale non in quanto è ma in quanto produce” era il profetico monito che accoglieva i prigionieri condotti a morire nel forte sabaudo di Fenestrelle che anticipava di ottanta anni il più noto “Arbeit Macht Frei”.

Nella terra di mezzo tra utilità e necessità culturale, nel caso di specie Costituzionale, l’Avvocatura ha resistito più di altre categorie (si pensi alla crisi dell’insegnamento).

Dal 1995 al 2017 gli iscritti agli albi degli avvocati sono aumentati di una percentuale vicina al 200% (anche questo un problema in termini di capacità di assorbimento del sistema), Dal 2008, volendo forzare il ragionamento dopo la Legge Bersani che rappresenta la Caporetto dell’Avvocatura italiana, la crescita si è assestata andando, poi, alla contrazione degli ultimissimi anni.

Nello stesso periodo si è assistito ad un fenomeno che, anni prima, aveva caratterizzato il mondo della scuola, la femminilizzazione della professione.

Le donne avvocato, infatti, hanno raggiunto una quota vicinissima al 50% degli iscritti.

Quella che poteva e doveva essere una grande risorsa, in realtà è, nel contesto italiano, l’epifenomeno di un indebolimento, in termini di autorevolezza e capacità di contrattazione economica. Le donne percepiscono dalla professione un reddito del 40% inferiore ai colleghi uomini facendosi, assieme ai sempre più rari colleghi giovani, soggetto-oggetto del dumping reddituale.

Il dato non può, né deve sconvolgere, ma indurre a riflessioni che conducano alla reazione razionale.

Il problema è certamente dell’Avvocatura che, nei numeri, vede erodersi il suo prestigio sociale ed istituzionale. Un un trend negativo costante che, proiettato in termini previdenziali,  pone seri dubbi sulla sostenibilità dell’attuale sistema di previdenza.

Le soluzioni sono molteplici ed oscillano tra modelli opposti, teoricamente validi, che vanno da una liberalizzazione vera della professione ad una sua regolamentazione più orientata dalle istanze socialdemocratiche che permeano la Costituzione vigente. Nessuna soluzione, però, può prescindere dalla soluzione della questione delle questioni riguardante la Classe forense, la sua assoluta inconsistenza politica.

L’Avvocatura ha il dovere, pur solo per istinto di conservazione rispetto al darwinismo di sistema che la vede destinata all’estinzione, di riscoprire zanne ed artigli per passare dalla richiesta alla pretesa. Ciò può avvenire solo attraverso una politicizzazione forte del suo agire con un radicale cambiamento del sistema di rappresentanza/rappresentatività.

Il problema, però, non è solo endoprofessionale, ma riguarda il “sistema Paese” che deve recuperare la sua identità in termini di prospettiva culturale e sociale. Dal momento che ciò avviene anche e soprattutto attraverso la posizione delle regole del gioco della convivenza, l’Avvocatura non può accontentarsi di esserne utilizzatore finale, ma deve pretendere di esserne artefice di pari dignità al tavolo delle Leggi.

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